Alcune immagini ritornano, come l’allucinata orazione funebre di un amico morto suicida con la testa in un blocco di ghiaccio – «ha deciso di ficcare la testa dentro al forno, ma era così sbronzo, il coglionazzo, che, puttana, mica ti scambia il frigo con il forno?» -, pronunciata dal protagonista di fronte ad una folla di ubriaconi impenitenti e di sopravvissuti ad ogni sorta di droga, ma i più di vent’anni trascorsi da Trainspotting non possono non farsi notare. All’emergenza del ritratto acido della prima generazione compiutamente postindustriale di Edimbugo, Irvine Welsh ha aggiunto mestiere e ricerca, dosando, attraverso una quindicina di romanzi che hanno comunque continuato ad esplorare ossessioni e derive individuali e collettive, gli ingredienti di uno stile inimitabile che alterna dissacrante ironia, apparente cinismo, amara sfrontatezza e rigore di una lingua sempre saggiamente ingarbugliata, immaginifica, irresistibile.

Terry Lawson, «Gas» o «Juice» per gli amici, tassista della capitale scozzese, nonché sesso-dipendente, attore porno e piccolo spacciatore, è invecchiato, fino a diventare, da comprimario – era già presente in Colla (2002) e Porno (2003) – il personaggio centrale di Godetevi la corsa (traduzione di Massimo Bocchiola, Guanda, pp. 440, euro 18,50) che fin dal titolo evoca – con un doppio senso ancor più evidente nell’originale, A Decent Ride – quella che è la principale funzione a cui è adibita la sua vettura di servizio. Se Welsh ammette di aver lasciato ormai da molto tempo le vecchie abitudini fatte di droga e alcol, «Gas» Terry non demorde, anche se la sua attività preferita è quella di intrattenersi con donne di ogni età e provenienza, preferibilmente sul sedile posteriore del suo taxi, mentre sulla Scozia incombe l’uragano «Du’Palle» e una folla di personaggi imprevedibili si affanna nei suoi piccoli e grandi traffici: dal gangster locale, soprannominato «il Ricchione», che gestisce una sauna con annesso bordello al miliardario americano, ed eroe dei reality, Ronald Checker che cerca di accaparrarsi del whisky rarissimo. Una delirante commedia umana in cui manie, ossessioni e dipendenze dovrebbero tenere lontano dai protagonisti, ma ovviamente invano, ogni altra preoccupazione esistenziale.

Con «Gas» Terry Lawson, protagonista di «Godetevi la corsa», entriamo nuovamente nel territorio della dipendenza dal sesso. Fin dai tempi di «Trainspotting», al centro delle sue storie sembra esserci un’umanità completamente dominata dalle proprie ossessioni e dipendenze: si tratti della droga, della forma fisica vissuta come una mania, della pornografia, del sesso. Per certi versi, i suoi personaggi sono sempre dei «tossici»: a suo giudizio è questa l’unica chiave di accesso alla realtà?

Non so se si tratta di qualcosa che ha a che fare con la mia storia. Quando ho cominciato a scrivere bevevo molto, assumevo droghe, fino a sviluppare una dipendenza dall’eroina: tutte esperienze che possono essere considerate una sorta di riflesso di come va il mondo. Quella della dipendenza infatti è una condizione, perlomeno sul piano psicologico, comune a molti. Viviamo in un mondo e in un’epoca nelle quali le ossessioni e le forme di dipendenza vengono incoraggiate apertamente. Rappresentano infatti il cuore stesso della società dei consumi: si cerca di individuare e studiare tutte le nostre ossessioni per venderci poi ogni sorta di «merce». Io non faccio che esplorare alcuni aspetti, talvolta quelli più in ombra, di questo consumismo generalizzato; e lo faccio senza falsi moralismi.

All’epoca di «Trainspotting», lei spiegava che nei quartieri proletari di Edimburgo la «cultura» della droga aveva preso, per molti giovani precari o disoccupati, il posto occupato dalla tradizionale identità working class primache la progressiva deindustrializzazione inaugurata nell’era-Thatcher cambiasse per sempre il paesaggio sociale del paese. Non si trattava solo di «consumo», ma anche di una sorta di narrazione generazionale. Il mondo di piccoli traffici illegali, spaccio e pornografia amatoriale in cui si muove ora «Gas» Lawson che situazione descrive?

Le cose non sono poi cambiate molto, eccetto il fatto che la crisi non ha fatto che stabilizzarsi: da fattore di emergenza si è trasformata in una caratteristica abituale delle regioni del nord dell’Inghilterra e della Scozia. In questo contesto, le droghe hanno lasciato il posto ad altre forme di dipendenza che sono state per molti aspetti regolate: la società ha organizzato le proprie ossessioni, le ha rese più compatibili con il «sistema» ma ha contribuito a diffonderle, non a ridurre l’estensione del fenomeno. Oggi, parallelamente al circuito dell’economia ufficiale, ne esiste un altro, molto fiorente, chiamato «sommerso» o «nero», che è in grado di fornirci ogni sorta di prodotto: un tempo era la droga, oggi sono gli iPhone rubati. Proprio il rapporto quotidiano con la tecnologia – che per altro apprezzo moltissimo – ha assunto per molti una dimensione psicotica: cellulari e social network sono divenuti dei «fatti sociali» che definiscono la nostra identità. Tutto intorno a noi, la crisi non potrebbe essere più pesante, ma in questo modo viviamo come sospesi o persi nei nostri trip tecnologici.

Nelle sue opere più recenti, sembra esserci però anche una chiara consapevolezza del contesto sociale emerso lungo questi lunghi anni di crisi. Così, ad esempio, Ray Lennox, il poliziotto protagonista di «Crime» (2009), il romanzo che rappresenta la sua prima vera incursione nel genere poliziesco, si chiede esplicitamente «cosa sarebbe la nostra vita senza il crimine». Dunque?

La domanda che si pone Ray è «che cosa diventerebbe una società senza il crimine come base di riflessione economica». Il crimine alimenta infatti tutta una parte della società in cui viviamo: contribuisce a creare molti posti di lavoro. Le leggi, la giustizia, la polizia, gli avvocati, i giudici, l’esercito, le prigioni, gli istituti di sicurezza privati, la video-sorveglianza, le trasmissioni tv dedicate ai crimini, il giornalismo e anche la cultura stessa: la letteratura, il cinema, la musica – basti pensare al gangsta-rap. Per non parlare dell’economia criminale, delle vere e proprie industrie legate ad ogni sorta di traffico. Il crimine è un settore come un altro della cultura e del comportamento umani. Perlopiù è considerato come il lato malefico di tutto ciò, ma in realtà dà da vivere ad un’intera fetta della nostra società. Non fosse altro che per fermare l’aumento della disoccupazione, noi abbiamo bisogno del crimine.

In questi anni non è però cambiato solo ciò che andava descrivendo, ma anche la sua stessa prospettiva esistenziale: ha guadagnato molti soldi, ha ottenuto un largo successo internazionale, si è trasferito dal quartiere portuale di Leith ad Edimburgo negli Stati Uniti. Il suo «sguardo» è rimasto lo stesso?

Sono cresciuto in una periferia povera, tra persone che lavoravano duro per pagare l’affitto, pagare le bollette della luce, del gas e dare da mangiare alla propria famiglia. Questo tipo di inquietudine fa parte della mia cultura. Ora grazie ai soldi che ho guadagnato riesco a guardare con maggiore serenità alla mia vita. Quanto al fatto di non vivere più stabilmente ad Edimburgo, dove però trascorro un po’ di tempo ogni anno, credo non abbia cambiato più di tanto il mio modo di guardare alle cose; negli Usa, dove andavo spesso già alcuni anni fa, quando lavoravo come DJ per un’etichetta di musica House, ho una casa a Chicago, ed un’altra a Miami.

Di Chicago mi continua a colpire soprattutto la forte segregazione razziale tra bianchi e neri, visibile anche solo passando da un quartiere all’altro; mentre di Miami – dove ho ambientato alcuni romanzi, Crime e La vita sessuale delle gemelle siamesi -, mi attira il fatto che raccoglie molta gente considerata «indesiderabile» nel resto del paese, gente marginale e problematica che qui riesce a campare anche grazie al clima particolarmente mite. Perciò, con il tempo, ho imparato a scrivere di luoghi diversi rispetto ad Edimburgo, anche se la mia identità di scrittore rimane per molti versi intatta, legata e plasmata da ciò che ho vissuto da bambino e da ragazzo in Scozia.

Nei suoi romanzi, compreso quest’ultimo, non è mai stato troppo tenero con i nazionalisti scozzesi: eppure, lo scorso settembre, in occasione del referendum sull’indipendenza, ha sostenuto apertamente le ragioni della separazione da Londra (poi sconfitte di misura nelle urne) e ha denunciato ciò che ha definito come «il consenso neoliberale britannico su cui regnano da 35 anni itre maggiori partiti del paese: laburisti, conservatori e lib-dem»…

Nel corso degli ultimi anni ho cambiato opinione riguardo a questo tema, perché ho esaminato con maggiore attenzione le evoluzioni conosciute della politica e dall’economia del Regno Unito. Un tempo c’erano l’Impero, la mobilitazione per le due guerre mondiali, la grande industria, il sistema del welfare, l’Education act, la norma che ha consentito anche a tanti figli di operai di avere un’istruzione: elementi che avevano contribuito a tenere insieme le quattro nazioni (Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord, n.d.r.) che costituiscono la Gran Bretagna. Ora però, anche sotto i colpi di trent’anni di crisi economica e trasformazioni produttive – l’ordine neoliberale inaugurato della Thatcher a cui ho fatto riferimento in occasione del referendum -, questo collante è venuto meno e ciascuno si pensa in altri termini, più legati al territorio in cui vive, al contesto in cui opera, alla possibilità di mantenere diritti e garanzia perlomeno su base locale: in altri termini ci si sente più scozzesi o inglesi che britannici. Mi sembra un processo inevitabile che qualcuno può anche cercare di rallentare per un po’, ma è destinato a svilupparsi. Da questo punto di vista, l’indipendenza della Scozia è solo rimandata di qualche tempo.

La critica all’establishment di Londra, che fa capolino anche in «Godetevi la corsa», dove si può leggere che «da un’inchiesta risulta che l’elezione a Westminster ha fatto ingrassare i parlamentari scozzesi in media di tredici chili nel primo anno di mandato», non sta però assumendo solo le forme conosciute a Edimburgo. In vista delle elezioni politiche del prossimo 7 maggio, cresce infatti anche la pressione del movimento xenofobo, populista ed euroscettico dell’United Kingdom Independence Party. Come valuta questa minaccia?

Da un lato, l’ascesa dello Ukip consente di misurare tutta la delusione e la distanza che c’è oggi in Gran Bretagna tra la maggior parte dei cittadini e le principali forze politiche che detengono da sempre il potere nel paese. Dall’altra, però, proprio questo movimento è in realtà molto meno anti-establishment di quanto non ami definirsi: non a caso, se la prende con gli immigrati, che sono invece tra le vittime della situazione sociale di oggi, piuttosto che non i veri responsabili della crisi e dell’impoverimento dei cittadini britannici, come ad esempio i signori della City e i big dell’economia nazionale. In altre parole, credo che, in maniera opportunistica, i partiti maggiori e il vero establishment del paese, preferisca vedersela con l’Ukip piuttosto che con qualcuno che ne denunci fino in fondo le reali responsabilità nell’aver contribuito al tracollo della nostra società.