Il libro di Patrizia Cecconi – Vagando di erba in erba, racconto di una vacanza in Palestina., edizioni Città del Sole, – appassiona. È un libro originale, che racconta in 300 pagine, 30 giorni di camminate attraverso il territorio occupato, seguendo, da conoscitrice, il filo verde delle erbe, delle piante, dei fiori. Ma insieme ci restituisce lo spessore della sua storia, la ricchezza della sua natura, la bellezza della sua arte e archeologia, citando miti e storie bibliche, senza mai tacere il sopruso duramente esercitato dall’occupazione israeliana, dal muro, dalla fatica del vivere quotidiano.
La fatica che fa ogni palestinese per spostarsi da un posto all’altro, per andare a scuola, per andare a lavorare, per trovare le amiche e gli amici, e perfino per andare in ospedale a curarsi, a causa dei tanti posti di controllo, della necessità di evitarli triplicando il tempo dei percorsi. Tuttavia molte di queste pagine sono improntate dal piacere del vivere, dalle risate dei ragazzini, dalla speranza di un futuro migliore che, nonostante tutto, non abbandona le donne e gli uomini che l’autrice incontra.

Fin dalle prime pagine, troviamo un’«erba che dà gioia», la bakli-farfahina, il cui nome scientifico è portulaca oleracea e quello volgare, erba porcareccia, che le donne palestinesi raccolgono per l’insalata e vendono insieme a mazzetti di salvia e di menta, sulla strada che, lungo le mura di Gerusalemme, conduce alla porta di Damasco. Dall’erba al fascino delle mura, «stratificazione di pietre, di culture, di storia». Da Gerusalemme a Betlemme, alla collina di Cremisan, dove viene prodotto un ottimo vino, anch’esso parte di una cultura plurale quale è quella palestinese. «A volte si dimentica che i palestinesi sono prima di tutto palestinesi e poi possono essere di diverse confessioni religiose».

Belle pagine di storia biblica e descrizione architettonica ci presentano la più grande città della Palestina: Hebron – Al Khalil, dove «perfino il vecchio suk – che è un monumento vivente al sopruso e all’illegalità, con le sue reti per fermare immondizia e pietre lanciate dall’alto dai coloni – ha il suo fascino».
Ma non solo l’antico è bello: infatti dopo qualche pagina si arriva al recente museo e mausoleo di Mahmoud Darwish, sulle colline di Ramallah, all’interno di un giardino meraviglioso: «Dalle palme nane ai melograni, dal mirto al cisto rosa, ai ciclamini, ai cespugli di asteracee, il giardino rappresenta tutto ciò che… ricorda l’immortalità delle parole di Mahmoud Darwish, il poeta che ha dato alla resistenza palestinese la voce della poesia»; il suo verso inciso in arabo sulla tomba ricorda che la «suggestiva bellezza di una farfalla resta presente anche quando la farfalla non si vede più».

Il libro è appassionante proprio per questa combinazione di bellezze naturali e storiche, che trasmette una risposta di identità, contro la volontà distruttrice di memoria, paesaggi, ulivi. Così Omar il contadino, spiega l’uso del Terebinthus palaestinum, le cui bacche rosa essiccate e macinate vengono aggiunte allo zaatar, spezia composita immancabile su ogni tavola palestinese; e la giovane Nour a Jenin, racconta la storia di Fatima Khatoum, moglie del governatore di Damasco vissuta nel XVI secolo «quando Jenin e Damasco avevano così stretti rapporti che le due città si scambiavano messaggi attraverso i piccioni viaggiatori appositamente addestrati e … a Jenin era stata costruita una torre colombaia proprio a questo scopo». Accanto alla moschea, da lei fatta erigere, l’antenata musulmana di Cristina di Belgioioso fece costruire una scuola per ragazze, tuttora attiva! In queste pagine si trovano le tante tessere che compongono il mosaico di una cultura, la forma più alta di resistenza che aspira alla libertà: “Resistere con tutto ciò che possediamo di tenacia ed ironia /Con tutto ciò che possediamo di furore /Nei momenti critici aumentano le profezie /Ed eccomi vedere il viso della libertà accerchiato da due ramoscelli /d’ulivo. Lo vedo sorgere da un sasso” (Mahmoud Darwish).