Bisogna scrivere per gli infelici; chi possiede le prosperità di questo mondo ha già la propria esperienza per istruirsi, e per costui le idee generali, di qualsiasi argomento, non sono altro che tempo perso. Non è così per coloro che soffrono: la riflessione è il loro rifugio più sicuro, ed esclusi per malasorte dalle distrazioni della società possono esaminare sé stessi e cercare, come un malato che si rigira in un letto di dolore, la posizione meno dolorosa. È l’eccesso d’infelicità a far nascere il pensiero del suicidio, e una tale questione, che ha a che fare con l’organizzazione morale dell’uomo, non potrà mai essere approfondita abbastanza. Sono orgogliosa di presentare qualche nuova intuizione sui motivi che possono portare a questa azione, e su quelli che devono distogliere da essa. Discuterò di questo tema senza malevolenza e senza esaltazione. Non bisogna odiare quanti sono così sventurati da avere in odio la vita; né lodare quelli che soccombono sotto un grande peso: perché, se potessero andare avanti sopportandolo, la loro forza morale sarebbe più grande. Le persone che di solito condannano il suicidio, credendosi dalla parte del dovere e della ragione, per sostenere la loro opinione si servono spesso di alcune forme sprezzanti che possono ferire gli avversari; e di tanto in tanto mescolano anche alla meritata censura di un atto deplorevole qualche ingiusto attacco contro l’entusiasmo in generale.

Esaminerò innanzitutto quale sia l’azione della sofferenza sull’animo umano. Non si può nascondere che, per quanto riguarda le impressioni causate dal dolore, esista una differenza tale tra gli individui quale quella che può esistere rispetto al genio e al carattere: non soltanto le circostanze, ma il modo di percepirle varia così tanto che anche persone assai stimabili possono non comprendersi da questo punto di vista; eppure, tra tutti i limiti dello spirito, il più insopportabile è proprio quello che ci impedisce di comprendere gli altri. Credo che la felicità consista nel possesso di un destino che sia in accordo con le nostre facoltà. I desideri sono una cosa momentanea, e spesso funesta nei nostri stessi confronti; ma le facoltà sono permanenti, e i loro bisogni non cessano mai Il potere di amare, l’attività del pensiero, il valore che si lega all’opinione fanno di questo o di quel genere di vita un’esistenza dolce per gli uni e pesante per gli altri. L’inflessibile legge del dovere è uguale per tutti, ma le forze morali sono puramente individuali; e soltanto una profonda conoscenza del cuore degli uomini può dare un’equità filosofica ai nostri giudizi sulla felicità e l’infelicità di chi non ci somiglia. Mi sembra dunque che non si debba mai discutere di quel che ciascuno prova: i consigli possono vertere soltanto sulla condotta e sulla fermezza d’animo, che la virtù e la religione assumono come identica legge per tutte le situazioni; ma le cause dell’infelicità e la sua intensità variano quanto le circostanze e secondo gli individui. Voler analizzare le combinazioni tra la sorte e il carattere sarebbe come provare a contare le onde del mare.

Ogni individuo possiede in sé stesso i mezzi per compiere il proprio dovere; e quel che vi è di ammirevole nella natura morale, così come nella natura fisica, è fino a che punto il necessario è ripartito in modo uniforme e universale, mentre il superfluo si diversifica in mille modi. Dolore fisico e dolore morale sono un’unica cosa per quel che riguarda l’azione sull’animo, perché oltre a essere una pena la malattia è una sofferenza; ma il dolore fisico di solito fa perire il corpo, mentre i dolori morali servono a rigenerare l’anima. Non basta credere, con gli Stoici, che il dolore non è affatto un male: occorre convincersi che esso è un bene, per potercisi rassegnare.

Il più piccolo male risulterebbe insopportabile, se lo considerassimo come puramente casuale; dato che l’irritabilità individuale influisce sul modo di sentire, non avremmo più il diritto di biasimare un uomo che si uccide per essersi punto con una spina piuttosto che per un attacco di gotta; o ancora per una contrarietà piuttosto che per un dolore. Il più piccolo sentimento di dolore può rivoltare l’anima, se non tende a perfezionarla; perché vi è più ingiustizia in un piccolo male, se inutile, che nella pena più grande, se tende a un nobile scopo.
Non vale la pena rievocare la grande questione metafisica sull’origine del male che ha vanamente occupato tutti i filosofi. Non è possibile concepire la libertà dell’uomo senza possibilità del male. Non è possibile concepire la virtù senza la libertà umana, né la vita eterna senza la virtù; questa catena, il cui primo anello ci è al contempo incomprensibile e indispensabile, deve essere considerata come la condizione stessa del nostro essere.

Si è avuto torto nel sostenere che il suicidio sia un atto di viltà: questa asserzione forzata non convince nessuno, anche se bisogna distinguere in questo caso il coraggio dalla fermezza. Per uccidersi occorre non temere la morte, ma non saper soffrire significa mancare di fermezza d’animo. È necessaria una specie di rabbia per vincere dentro di sé l’istinto di conservazione della vita, quando non è un sentimento religioso a chiederci di sacrificarlo. La maggior parte di quelli che hanno provato invano a darsi la morte non ha rinnovato i suoi tentativi, perché nel suicidio, come in tutti gli atti disordinati della volontà, c’è una certa follia che si placa quando si avvicina troppo al suo scopo.

L’infelicità non è quasi mai qualcosa di assoluto: i suoi rapporti con i nostri ricordi o con le nostre speranze ne compongono spesso la parte maggiore, e quando avvertiamo in noi una scossa molto forte, sovente il nostro dolore appare alla nostra immaginazione sotto un aspetto assai diverso. Provate a rivedere dopo dieci anni una persona che ha subìto una grande privazione, di qualsiasi natura, e constaterete come essa soffra e goda per altre cause rispetto a quella che costituiva la sua infelicità dieci anni prima. Questo non significa necessariamente che la sua anima sia ridiventata felice, ma la speranza e il timore hanno preso in lei un altro corso: e sono questi due sentimenti a comporre la vita morale.

Ci sono solo due modi di considerare l’esistenza: o come una partita di gioco in cui i beni di questo mondo si vincono o si perdono, o come un noviziato per l’immortalità. Se la pensiamo come una partita, saremo in grado di riscontrare nella nostra condotta soltanto la conseguenza di ragionamenti portati avanti bene o male. Se il nostro scopo è invece la vita a venire, la nostra coscienza darà peso soltanto alle intenzioni. C’è un futuro in ogni occupazione, ed è di un futuro che l’uomo ha sempre bisogno. Come l’aquila di Prometeo, le facoltà ci divorano se non hanno un punto d’azione al di fuori di noi, e il lavoro esercita e dirige queste facoltà: insomma, quando si ha immaginazione, e la maggior parte di quelli che soffrono ne ha molta, si possono sempre trovare piaceri nuovi nello studio dei capolavori dello spirito umano, sia che se ne goda come appassionati che come artisti. Una donna d’ingegno ha detto che la noia si mescola a tutte le pene, e questa riflessione è molto profonda. La vera noia, quella degli spiriti attivi, è l’assenza di interesse per tutto ciò che ci circonda, unita alla presenza di facoltà che renderebbero necessario quest’interesse: è la sete senza possibilità di dissetarsi. Tantalo è un’immagine abbastanza adatta per l’anima in questo stato.

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SCHEDA:

Nata a Parigi il 22 aprile del 1766, Anne-Louise-Germaine Necker, conosciuta con il suo «nom de plume» Madame de Staël, non è stata solo una pensatrice e scrittrice tra le più raffinate e famose nell’Ottocento europeo. Antesignana del romanticismo, attenta lettrice e codificatrice della «condizione delle donne», contestatrice della politica napoleonica, ha influenzato generazioni di scrittori tra cui Stendhal. Le sue prime opere sono state di carattere illuministico tra cui «Lettere sugli scritti e il carattere di J.J. Rousseau» (1788) e «Dell’influenza delle passioni sulla felicità degli individui e della nazioni» (1796). La circolazione arriva però con due romanzi, il primo è in forma epistolare, «Delphine» (1802). Poi «Corinne o l’Italia» (1807).
August W. Schlegel, Goethe, Schiller, Benjamin Constant sono alcuni dei personaggi che frequentò e attorno a cui costruì uno dei «salotti» più vitali di quegli anni che poi ripensò durante il suo soggiorno ginevrino a Coppet.  La sua opera probabilmente più nota è «Sulla Germania» (1810). «Dieci anni di esilio» (1821) viene invece pubblicata postuma, dopo 4 anni dalla sua morte.