Negli ambienti della consulenza soft milanese di fine anni Ottanta girava la bella trovata della cosiddetta «democrazia telematica»: basta con le discussioni inutili nelle sedi istituzionali preposte alle decisioni pubbliche, molto meglio ricorrere ai sondaggi che in tempo reale stabiliscono la prevalenza delle opinioni su qualsivoglia problema. I boss delle società di indagini demoscopiche ne erano entusiasti, visto che trovate di tal genere avrebbero assicurato inimmaginabili incrementi ai loro business. Difatti si aveva un bel far presente che la prospettata «sondaggiocrazia» comportava l’assurda conseguenza di rettifiche quotidiane (o magari orarie) alla linea politica di qualsivoglia istituzione; producendo effetti tra lo schizofrenico e il babelico, influenzati da ogni sbalzo d’umore, che avrebbero reso impossibile impostare una qualsivoglia linea politica (tradotta in un action set minimamente coerente). Niente da fare: restavano irremovibili.
Lo stesso valeva per altre analoghe trovate: dall’isolazionismo protoleghista di «Milano città stato» alle meraviglie rigenerative promesse dalla democrazia diretta, in cui l’ipotetica verginità della Società Civile avrebbe bonificato «le aule buie e sorde» della Politica.

La matrice di queste «cavatine» era chiaramente aziendale, ossia l’ambiente da cui il personale della consulenza proveniva e in cui si era formato ai valori e alla cultura dell’efficienza come azzeramento dei problemi e dell’efficacia tradotta in manipolazione del personale ad uso delle dirigenze (parlandoci chiaro: quelle che attribuiscono l’incarico e pagano i relativi compensi). Difatti democrazia diretta e sondaggiocrazia venivano ampiamente praticate nelle convention aziendali sotto forma di televoto, con cui i dipendenti erano invitati a emettere giudizi su marginali banalità dando loro l’impressione di contare davvero; soluzioni tipo «Milano città stato», come marchingegno per il mantenimento del prelievo fiscale, si ispiravano al criterio aziendalistico del risolvere la complessità organizzativa tagliando tutto quanto non fosse «core business».
Questa robusta paccottiglia di banalizzazioni applicate alla deliberazione aveva i suoi presupposti nella superiorità della forma-impresa sulla forma-partito, nello stereotipo (di cui si diceva) della Società Civile. Luoghi comuni molto inizio anni ’90. Presto rivelatisi retorica destituita di fondamenti alla luce delle sentine scoperchiate da Mani Pulite; in cui il mix corruzione/concussione spazzò via ogni ipotetica distinzione tra santità e il suo contrario dei vari milieux imprenditorial-politici. E per un po’ non se ne parlò più. Ora l’intero armamentario viene riciclato da un altro consulente milanese in pieno quarto d’ora di celebrità – GianRoberto Casaleggio – con cui assembla la teoria politica del Movimento Cinquestelle.
Materiale di recupero sostanzialmente invariato, ma che sembrerebbe di prima mano proprio per la lunga pausa in cui era stato lasciato in soffitta o tenuto in cantina. Puro remake.

Difatti il guru di Grillo, intervistato dal Corriere della Sera, ripropone la solita solfa sulla crisi della democrazia rappresentativa aggiornata in chiave internetcentrica: l’idea del tutto naif di risolvere la complessità dei problemi nel sì/no referendario, la metafora ruffiana dell’eletto come «portavoce dell’elettore». Insomma, il venerando dibattito sulla democrazia nella società dei grandi numeri e dei grandi spazi, il patrimonio di contributi tra fine ’700-inizio ’800 sulle ragioni della rappresentanza che discende dai Padri Fondatori (da James Madison a Thomas Jefferson), le riflessioni di Edmund Burke su quello politico come mandato sui generis, azzerati con una slide da «lucidatore» (in gergo chi mette i lucidi sul proiettore nelle aule di formazione).