Donbass, est Ucraina o ex-Ucraina visto che i suoi abitanti continuano a combattere per l’indipendenza delle nuove «Repubbliche popolari» nate con referendum popolare e vicine alla Russia che nessuno ha finora in Europa o nel mondo riconosciuto. C’è chi nonostante i milioni di sfollati e le decine di migliaia di morti la chiama ancora «la guerra invisibile» a cui Kiev non rinuncia – il presidente ucraino, Poroshenko poche settimane fa ha annunciato l’avvio di una nuova operazione militare.

Ma che guerra è questa che martella a colpi di cannone e di cecchini la vita di chi ancora la abita, scandita dall’artiglieria pesante in un paesaggio di brutalità e violenza mascherate, tute mimetiche e armi, eserciti senza nome, bandiere che ci appaiono sconosciute? Davanti al film di Sergei Loznitsa, Donbass, il cui titolo dichiara subito l’argomento la domanda che attraversa più o meno ogni inquadratura è: dove siamo? Fisicamente i luoghi somigliano a quelli di qualsiasi guerra, così i dolori dell’umanità che li attraversa inghiottita in quel «gioco delle parti», geopolitica, economia, interessi, capitali che muove sempre ogni conflitto cancellando l’esperienza quotidiana. La realtà stessa davanti alle telecamere può essere ricostruita a favore di una o l’altra parte. Morti compresi.

Dunque? Lo spiazzamento è ovviamente intenzionale, nelle note di regia Loznitsa,che è cresciuto a Kiev, spiega di avere voluto indagare una società caratterizzata dal declino, dalla rabbia, dall’aggressività, dalla disgregazione più che le cause del conflitto iniziato nel 2014. Da che parte sta il regista peraltro lo sappiamo, ce lo ha chiaramente detto in un film precedente, Maidan, girato durante gli scontri sulla piazza contro l’allora presidente ucraino Janukovich.

E questa è la prima impasse del film, al di là se si è d’accordo col suo punto di vista o meno – ma certo il volontario ucraino rappresentato come un poveretto carne da macello di fronte alla folla inferocita di «popolari» che lo linciano mentre è esposto con le mani legate a un palo, dimentica che il governo di Kiev utilizza gruppi paramilitari e fascisti o neonazisti come il gruppo Azov. Perché Loznitsa nell’eccesso che caratterizza la sua cifra narrativa – quasi all’opposto dell’essenzialità dei documentari – che qui guardando alla tradizione del cinema sovietico degli anni Settanta sembra sottolineare lo scollamento tra realtà e sua rappresentazione, ha messo a fuoco un dato interessante, l’impossibilità cioè di raccontare le guerre nel nuovo millennio senza appoggiarsi a una griglia «ideologica», quasi una bussola di punti di riferimento che ne permette la lettura.

A un certo punto nel film non sappiamo chi sono i buoni e i cattivi dentro la girandola di corruzione, violenza, sfacciataggine del potere. I tredici episodi che lo compongono, ispirati a vicende reali, rendono il dramma grottesco, e chi ne rimane schiacciato sono quei volti senza nome, i cittadini, gli abitanti, chi sussurra piano sul bus che spera di trovare ancora la casa in piedi…O chi rifiuta benessere o doni di una figlia (prorussa ovviamente) rivendicando la propria dignità. Sono loro l’unica realtà possibile ma poi: è tutto vero o è tutto una ricostruzione? Una questione fondamentale oggi. Peccato che Loznitsa non abbia assunto fino in fondo l’ipotesi «liquida» delle sue immagini.