Detto fuori dai denti. A cosa servono i dischi ai tempi del digitale, del download meglio se piratato, quando in vetta alle classifiche ci si arriva con una manciata di copie vendute e non a colpi di dischi di platino come in un passato nemmeno troppo remoto? Lo ha spiegato il leader/bassista dei Metallica, Lars Ulrich, in un’intervista in cui molto onestamente affermava il tramonto dell’industria e soprattutto dell’oggetto disco: prima erano al centro di tutto, anche dei tour, ora sono solo «una fase marginale del fatturato complessivo». Quasi meglio lavorare sul catalogo o su edizioni deluxe per la nicchia, sicura questo sì, dei fan.

C’è anche un’altra faccia della medaglia; meno strategie promozionali a strascico, più fantasia (come altrimenti definire il colpo da maestro di Beyoncé e del suo staff che annuncia il disco solo il giorno dell’uscita?!) e capacità di reinventarsi. L’approccio al nuovo album di Bruce Springsteen High Hopes (Columbia) – che sarà disponibile in copia fisica dal 14 gennaio, ma già da lunedì scorso si può ascoltare in streaming sul sito Sony.com – va proprio in questa direzione. Il boss dal vivo è – innegabile anche dai detrattori – un’esperienza indimenticabile, una catarsi rock di tre ore alla quale abbandonarsi completamente. Da studio, invece, il ragazzo procede un po’ zoppicando almeno da un decennio in qua; raccolte più che decorose ma lontane parenti della magia evocata dai suoi classici o dalle perle in acustico proposte in, ad esempio, da The Ghost of Tom Joad.

Ergo non è che si riponessero chissà quante «grandi speranze, così come annunciate dal titolo del disco. E invece l’autore del New Yersey smentisce tutti e estrae dal cilindro un progetto piacevolmente spiazzante. Intanto le dodici tracce di High Hopes non sono del tutto nuove; quattro sono infatti brani già eseguiti dal vivo nel suo tour australiano, altre ripescate e rilette dal passato. Certo, messo così sembrerebbe un progetto un po’ raccogliticcio, album che si assemblano per rispettare un contratto o – appunto – giustificare un nuovo tour. Invece no, Springsteen – come aveva già fatto in parte con il precedessore Wrecking Ball, ha messo mani a sue vecchie session, scegliendo pezzi (in alcuni casi, come detto, già proposti dal vivo) risuonandoli con nuovi arrangiamenti e colori e poi man mano che procedeva con il lavoro, ha voluto aggiungere anche delle perle altrui. Ed è il caso del brano che intitola il cd e inaugura la cavalcata di note, una cover degli Havalinas già incisa e pubblicata nei novanta, qui luccicante in una versione molto energica, molto percussiva e con l’aggiunta di fiati. E soprattutto con la fondamentale presenza di Tom Morello, la chitarra dei Rage Against the Machine «carburato» dal tour in Australia con Bruce al posto di Steve Van Zandt, che si fa sentire eccome in otto brani. Un lavoro intenso e faticoso (Morello ha rivelato che Springsteen gli ha mandato per il tour un elenco di 50 canzoni da imparare in tre mesi, integrandole a pochi giorni dal debutto con altre 7 …), ma che impreziosisce di grana rock l’intero album.

Anche l’altra cover del disco è stata già testata in passato: Dream little Dream dei newyorkesi Suicide di Martin Rev e Alan Vega era stata suonata dal vivo nel 2005; ora il Boss la riprende con il supporto di Ron Aniello. Puro rock’n’roll, con un anelito di speranza, proprio come da titolo: mai arrendersi alla bellezza della vita, di un figlio in arrivo, di un amore, di un concerto. Bruce buonista? Affatto, riascoltare il nuovo adattamento di American skin (41 shot) dove i 41 colpi del titolo sono i proiettili che uccisero un giovane afroamericano innocente che mentre estraeva un portafogli venne freddato dalla polizia. Un pezzo fondamentale della sua recente discografia (2001)– e che scatenò polemiche all’epoca – qui riletto con una base percussiva campionata e la chitarra di Morello. Un urlo antirazzista che quasi senza volerlo arriva quando il ricordo della morte di Mandela – e dei suoi concerti sudafricani – è ancora molto fresco.

Non è finita perché High Hopes fa riscoprire perle rimaste nascoste nel tempo. Harry’s Place, ad esempio, nasce dalle session di The Rising (2005), il ritratto di un temutissimo spacciatore («quando lui parla, la strada è sua, fai meglio a liberarla»), o il ricordo dell’America sotto shock dopo l’11 settembre in Down in The Hole (alla voce Patti Scialfa, organo Danny Federici) raccontato attraverso il drammatico peregrinare di un uomo che si aggira in una città deserta. Il sogno americano infranto ricorre anche in Hunter of Invisible Game, dove il protagonista è tormentato dal passato e si rende consapevole dei propri errori («La forza è vanità, il tempo un’illusione»). Il boss graffia ancora.