Lo striscione di testa con le matriosche, le parrucche rosa shocking scarruffate dai colpi di vento e le strade di Roma colorate e intasate dalle donne che ballano e fanno cordone: sì in effetti c’erano anche l’anno scorso.

Ma è una falsa pista pensare che da un anno all’altro poco sia cambiato nel movimento delle donne dopo il suo exploit italiano.

Vale la pena notare le differenze. Come la presenza molto più massiccia, ad alta densità specialmente nella seconda parte del corteo, cioè dopo il camion più grande, di ragazze molto giovani, tra i venti e i trent’anni.

E il tono dei cartelli e degli slogan, decisamente più improntato all’anti autoritarismo e alle rivendicazioni sociali. Sul tappo di una scatola da stivali appesa sulle spalle, la formidabile sintesi: «Al massimo ti invidio il pane», con la «e» cancellata e trasformata in «a».

L’autrice e donna-sandwich è Giuliana, 33 anni, «scrittrice disoccupata», proveniente con le amiche da Lenola, «sì, il paese di Pietro Ingrao». Per lei il patriarcato e lo sfruttamento «sono due facce della stessa medaglia», sorretta dallo stesso sistema e «incarnato nello Stato». Se le chiedi un esempio, tanto per uscire da un discorso che sembra un po’ troppo teorico, la risposta è pronta: «Quando la giunta Raggi sfratta la Casa internazionale della donna e non fa niente contro l’occupazione abusiva di Casa Pound non è casuale, è una scelta politica meditata, funzionale».

Qui e là sono dappertutto nel corteo i riferimenti all’antifascismo, come parte della battaglia per la libertà dalla violenza, dalla sopraffazione, dal machismo e più in generale da una cultura repressiva e da una politica istituzionale ossessionata dal controllo dei corpi e dei comportamenti.

Sono quasi tutte ventenni, ma anche più giovani, le ragazze che hanno riempito il pullman proveniente da Bari che si firmano Geeerl gang, dove la sigla – spiega Rebecca, appena 15 anni – sta per «gruppo erranti eretiche erotiche rivoluzionarie, laboratorio».

Cosa fate in questo laboratorio? «Ci confrontiamo sul modello dei vecchi gruppi di autocoscienza». E fanno parte del collettivo di mutuo soccorso «Non solo maranje», «che in dialetto – spiega Carmen, 28 anni – significa non solo arance, quelle che si portano in galera, perché è un gruppo di assistenza legale».

Si gira lo sguardo ed eccone un altro: «Noi difendiamo la nostra esistenza, ora e sempre resistenza». Anche per il collettivo di Matera, la parola d’ordine è «welfare», declinato così da Chiara: «Nella nostra regione – la Basilicata, amministrata dal Pd di Pittella ndr -la situazione è veramente dura, c’è un solo consultorio a Potenza e nella Asl, con tutta la medicalizzazione del caso, lo sportello antiviolenza è chiuso perché non è stato rifinanziato e l’unica casa rifugio, ristrutturata e ammobiliata, ancora non funziona perché non è stata assegnata a bando, non si sa per quale motivo».

A Roma Arianna, 26 anni, studentessa del collettivo Sapienza Clandestina racconta che nell’ultimo anno si sono avvicinate molte ragazze giovani a partire dalle occupazioni di case e dalle lotte contro gli sgomberi. «I percorsi non sono separati e abbiamo iniziato a parlare anche di aborto, violenza dei maschi, di cui alcune non si rendevano neanche conto, hanno iniziato a capire che la violenza sui corpi è solo la punta dell’iceberg, hanno preso coscienza di molte cose e ora sono diventate finalmente protagoniste, tocca quasi strapparglielo adesso, il megafano, perché non lo mollano più», sorride.

Marta invece viene da Pisa, dal progetto Mala Servanen Jin, che sta per «casa delle donne che combattono» in kurdo, un’esperienza di condivisione abitativa in occupazione di un immobile comunale abbandonato da anni, da cui a maggio la giunta a guida Pd ha cacciato le donne a manganellate.

«Anche noi abbiamo aggregato molte giovani anche sole sui trent’anni, alcune con figli piccoli, senza casa, con lavori precari, perciò estremamente ricattabili sugli orari di lavoro. C’è grande sofferenza sociale e solitudine, che ricade come massi sulle donne e si deve ripartire da zero, all’inizio ci hanno chiesto: “ma noi siamo femministe?”»