Nemmeno una, fra le architetture scelte per la mostra al Vitra Design Museum Together! The new Architecture of the collective (aperta fino al 10 settembre) racconta dell’Italia. Eppure la «coabitazione» anche da noi può contare meritevoli esperimenti per iniziativa (certo) di limitati gruppi di persone, a volte collegati ad associazioni impegnate nel promuovere l’abitare sostenibile. Tuttavia ciò non sorprende, anche se un po’ dispiace. Ne comprendiamo bene le ragioni: da noi l’abitare in comune o il vivere in spazi con altri condivisi è un fatto trascurato sia dalla ricerca accademica sia dalle istituzioni pubbliche, seppure se ne parli e discuta moltissimo.

Il co-housing attrae e appassiona, ma si contano sulle dita di una mano gli architetti che se ne occupano seriamente: ad esempio TAM Associati. Al contrario, in molti paesi europei, negli Stati Uniti e in Giappone, il costruire informale, autogestito e in gruppo, per la realizzazione di tipologie contenenti spazi da condividere per le più diverse attività è pratica, se non diffusa, almeno presente e organizzata, come dimostrano Mathias Müller, Daniel Niggli, Ilka e Andreas Ruby, curatori della mostra a Weil am Rhein.

Il costruire per abitare «insieme» solo in parte è riconducibile alla sfera del social housing, com’è costume ormai chiamare l’edilizia rivolta alle classi socialmente più deboli. La differenza tra l’abitare comune e quello sociale sta nei diversi processi e strategie di esecuzione, ma soprattutto nel ruolo del soggetto destinatario: nel nostro caso è un abitante che attivamente partecipa alla configurazione del suo spazio domestico e di quelli da condividere e non un consumatore della merce-casa, l’ultimo della catena che va dal progettista al costruttore.

L’antecedente ispirato a Fourier

All’ingresso della mostra grandi pannelli colorati disposti in circolo raccontano gli antecedenti illustri, tra Otto e Novecento, dell’abitare-collettivo: dal falansterio di André Godin ispirato a Fourier alla «città giardino» inglese di Letchworth firmata da Parker e Unwin, dal kibbutz «Degania» all’insediamento cooperativo svizzero di Freidorf, di Hannes Meyer, dai lunghi blocchi degli Höfe viennesi alle siedlungen del Razionalismo tedesco, fino alla freetown danese di «Christiana», alla torre a capsule «Nakagin» di Kurokawa a Tokio. Ulteriori esempi sono citati perché molti architetti si sono cimentati in Occidente con questo tema: da Le Corbusier a Moisei Ginzburg e Ignaty Milinis, da Bruno Taut a Sven Markelius, da Lucien Kroll a Oscar Niemeyer. Non c’è dubbio che poi si sarebbero dovuti elencare anche i numerosi episodi non codificati di «architettura senza architetti», l’architettura vernacolare, imperfetta e improvvisata ma sensibilmente aderente alle necessità della vita quotidiana dei suoi costruttori-abitanti. Il racconto sarebbe stato troppo lungo e la mostra comunque mira a evidenziare, nel presente, l’autorialità dei casi-studio selezionati.

La lunga storia del vivere in comunità si misura oggi con nuove condizioni di vita che riflettono i cambiamenti demografici, le trasformazioni economiche globali e la contrazione delle politiche di welfare. Le moderne condizioni di convivenza nelle città e nelle metropoli del mondo generano molteplici pratiche dell’abitare dalle conseguenze culturali e sociali di assoluta rilevanza per tutti. Quali siano questi diversi scenari, è possibile comprenderlo nelle due sale successive della mostra, dove sono collocati tre immaginari lotti urbani composti dall’assemblaggio dei modelli in scala delle architetture selezionate, delle quali più avanti, a conclusione del percorso espositivo, il visitatore potrà conoscere dati ed elementi del processo che ha permesso di realizzarle. Il mega plastico della virtuale «città collettiva» evidenzia, attraverso il colore, le funzioni che compongono ciascun edificio e come i loro spazi comuni interni confluiscono in quelli pubblici urbani. Il risultato è chiaro e convincente perché libero da qualsiasi conformismo, la coerenza del programma determina una varietà di ambienti e configurazioni spaziali fuori da qualsiasi astrusa convenzione tecnica e stilistica. Ci si accorge che al centro vi sono i bisogni e le necessità di chi abita. Ritorna alla mente la frase di Heidegger: «non abitiamo perché abbiamo costruito, ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo».

La filosofia ci soccorre, ma la riflessione su ciò che si deve intendere per occupare-un-alloggio, cosa significa superare le tradizionali tipologie residenziali e i modelli di organizzazione urbana codificati lo evidenziano ancora meglio le più aggiornate «ricerche sul campo» dell’antropologia urbana e della sociologia. Le fotografie di Daniel Burchard, riprodotte nella parte centrale del catalogo (Vitra Design Museum e Ruby Press), commentano le forme e le pratiche alternative scelte per l’esposizione. Sono esempi di autogestione, e in alcuni casi di autocostruzione, in volumi edilizi dalle dimensioni più varie. Per la loro scala ridotta – qualche centinaio di metri quadri – e l’attenta integrazione tra gli spazi condivisi e quelli privati, un posto di rilievo ce l’hanno alcuni esempi giapponesi disegnati da architetti che, notiamo, erano tutti assenti alla mostra del MAXXI, The Japanese House, dello scorso anno. Questi sono: Osumu Nishida e Erika Nakagawa, con l’alloggio a Yokohama, Studio mnm, con la «casa per sette persone» a Tokyo, Naruse Inokuma, con la «casa condivisa» a Nagoya, e Naka Architects Studio, con l’appartamento e piccolo ristorante a Tokyo.

Autogestione, esempi europei

Più impegnativi dal lato dell’estensione planimetrica e delle forme di autogestione sono gli esempi europei. Tra questi c’è il blocco di appartamenti ad Amsterdam realizzato dalla collaborazione di CASA Architecten e Vrijburcht Foudation; il recupero del deposito di tram a Kalkbreite a Zurigo, trasformato in residenze sociali con servizi che, come nel caso precedente, le istituzioni cittadine hanno sostenuto favorendo la cooperativa degli utenti e i loro progettisti: Müller Sigrist Architekten. Per il progetto di Zollhaus, la stessa cooperativa, con lo studio Enzmann+Fischer, ha intrapreso, invece, un esperimento aumentando il più possibile la flessibilità degli alloggi. Tra le città più avanzate nella ricerca di soluzioni abitative innovative la mostra elenca Berlino con lo sviluppo di Spreefeld (Carpaneto, fathoel architekten, BARarchitekten), Agora Wohnen (Hütten und Paläste) e R50 (ifau&Jesko Fezer, Heide&von Beckerath), e poi Vienna (Poolhaus, Wohnprojekt Wien), Copenhagen (SH2), oltre a Los Angeles (Star Apartments) e Seoul (Songpa, Micro-Housing). Gli esempi sono contenuti ma descritti in ogni particolare, persino nella ricostruzione «al vero», in una delle sale del museo, di un alloggio-tipo completo di mobili e accessori, anche se sembra di trovarci dentro a uno dei tanti allestimenti di un magazzino Ikea.

Together! è un’esposizione didattica, di notevole impegno per il tema sociale che tratta, ma, soprattutto, non è solo una mostra di architettura, rivolta com’è a chiunque ritiene importante migliorare la vita con gli altri, la natura e il nostro habitat. I materiali che sono esposti nel museo (di Frank Gehry), soprattutto al secondo piano, ci illustrano con tabelle e grafici il rigoroso processo di partecipazione che ha permesso, anche se in differenti situazioni geografiche, la realizzazione di architetture fondate su modelli di organizzazione democratica, inclusiva e solidale, ma soprattutto possibile. Quella che desidereremmo veder praticare anche nelle nostre città