Si racconta di un anziano signore che uscito di casa per procurarsi del cibo durante una delle rare tregue mattutine, non sia stato più in grado di trovare la via del ritorno.

I bombardamenti hanno modificato radicalmente la geografia di Gaza, alterandone insieme il tessuto sociale. Centinaia di famiglie che per anni hanno vissuto una accanto all’altra, costrette a evacuare verso punti cardinali differenti lungo tutta la Striscia, non hanno più alcun contatto fra loro.

Per raggiungere il quartiere Tal el Hawa, a sud est di Gaza city, bisogna attraversare a piedi una superficie lunare. Lasciandosi dietro crateri e collinnette di macerie, i carri armati israeliani si sono ritirati questa mattina dopo 48 ore di assedio. A far da cornice alla desolazione, l’insalubre inconfondibile odore della morte.

Arrancando fra ciò che resta di interi palazzi e case e le carcasse bruciate di automobili e ambulanze, mi sono messo alla ricerca della casa di Ahmed. Proprio a causa di questo mutamento di interi quartieri messi a ferro e fuoco dai soldati, non è stata impresa facile; ricordavo che Ahmed abitava al termine di una strada sterrata, impossibile da riconoscere ora che mi trovavo a incescipicare su di un fondo terroso di detriti masticati e risputati fuori dai cingoli dei tanks israeliani.

Qualora alla fine di questa massiccia offensiva genocida si effettuasse una fotografia satellitare di Gaza city, credo sarebbe arduo convincere qualcuno che si tratta della stessa città fotografata venti giorni prima.

Ahmed l’ho riabbracciato è per entrambi è stato come rivedersi dopo tanti anni, al termine di un lungo viaggio, di ritorno da un paese lontano.

Purtroppo invece il nostro viaggio al termine della notte non prevede ancora albe che non siano detonate dall’odio di chi ha mobilitato generali e truppe per il nostro sterminio. Il mio amico mi ha mostrato dove è rimasto piazzato il carro armato israeliano per due giorni, proprio dinnanzi a casa sua.

Per tutto questo lasso di tempo la sua famiglia ha vissuto costretta in un sottoscala, con il livido terrore che un colpo di obice seppellisse per sempre le loro esistenze. Solo ieri notte, contraddicendo agli ordine dell’apprensivo padre, Ahmed strisciando sul pavimento si è avventurato dinnanzi ad una finestra per dare uno sguardo all’inferno circostante.

Ha visto il carro armato muoversi a 30 metri da lui ed andare a sbattere contro la saracinesca di un supermercato, aprire una breccia e di seguito smontare dal mezzo corazzato alcuni sodati. Li ha visti recarsi festosi a “fare la spesa”. «Hanno riempito il blindato a tal punto che facevano fatica e rientrarci dentro». Dopodiché mi ha descritto le risa, i canti di scherno, che per tutta la notte hanno intercalato le esplosioni. «Alì, Mohammed, this is a message to your Allah Akbar!».

La resistenza che per alcuni giorni era riuscita stoicamente a limitare l’avanza dei mortiferi mezzi blindati israeliani, si è come eclissata nelle ultime ore. Lo scontro è impari, i kalashnikov fanno il solletico alle corazze dei tanks, al contrario i colpi di obice riescono a perforare le case da una parte all’altra.

Il quartiere residenziale di Abraj Towers, popolato per lo più dalle famiglie dei professori che insegnano alle università di Al Aqsa, notoriamente vicino a Fatah, non ospitano «terroristi di Hamas». Come ne sono a conoscenza io, è ovvio che ne sono informati anche a Tel Aviv, ma per loro non conta, il quartiere è stato ridotto un cumulo di decadenti macerie.

A fianco dei palazzi colpiti, l’ospedale Al Quds, dato alle fiamme nella giornata di ieri. I miei compagni, volontari dell’Ism, hanno assistito il personale medico nell’evacuare i 300 feriti ricoverati nell’altro ospedale di Gaza city, il principale, lo Shifa.

Ci hanno impiegato diverse ore, specie perché per il trasposto di alcuni pazienti gravissimi sarebbe stato necessario avvalersi di ambulanze specializzate, che i palestinesi non hanno a disposizione. Con il dottor Dagfinn Bjorklind dell’ong novergese Norwac abbiamo atteso gli ultimi evacuati e posto alcune domande agli infermieri scampati all’incendio dell’Al Quds.

Resoconti agghiaccianti, confermati anche dai miei compagni testimoni oculari. A duecento metri dall’ospedale stavano riversi in strada circa una trentina di corpi, molte donne e bambini, alcuni dei quali ancora in grado di produrre minimi movimenti. Non hanno potuto raggiungerli, cecchini posti sui tetti delle case sparavano a qualsiasi cosa si muovesse.

Quei corpi sanguinanti per strada, erano civili in fuga dalle loro case colpite e incendiate dalle bombe. Gli snipers israeliani non hanno esitato un secondo a stenderli uno ad uno, appena inquadrati nel centro dell’occhio del loro mirino, bambini compresi.

Vi confido che il mio «restiamo umani» ha vacillato spesso in questi ultimi giorni, ma resiste. Resiste come l’orgoglio, l’attaccamento alla terra natia intesa come identità e diritto alla autodeterminazione della popolazione di Gaza, dai professori universitari alla gente incontrata per strada, i medici e gli infermieri, i reporter, i pescatori, gli agricoltori, uomini e donne e adolescenti, quelli che hanno perso tutto e quelli che non avevano già più nulla da perdere, fino all’ultimo fiato in gola mi esprimono l’inshallah di una vittoria vicina, il sincero convincimento che le loro radici raggiungono profondità tali da non permetterne la recisione a nessun bulldozer nemico.

Mentre scrivo uno schermo televisivo vicino riporta immagini all’interno dell’ospedale Al Shifa, uomini in lacrime si battono le mani sul viso come per arginare lo sfociare di lacrime di disperazione. A Shija’ya, est di Gaza city, un colpo sparato da un carro armato ha mietuto 7 vittime, e 25 feriti. Stavano tutti riuniti in veglia funebre per un lutto che aveva colpito la loro famiglia il giorno precedente.

Ieri il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak si è scusato conil segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, per i colpi di artiglieria caduti sulla sede dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi a Gaza City (fra l’altro costruita con i soldi del governo italiano). “Si è trattato di un grave errore”, queste le sue parole. Non una richiesta di perdono per la famiglie dei 357 bambini palestinesi uccisi sino ad oggi. Evidentemente non si è trattato di un errore.

Da un paramedico della croce rossa ho ascoltato il resoconto del loro arrivo sulla scena del massacro di Zaitun. Un bambino, visibilmente denutrito stava accucciato dinnanzi al corpo della madre in avanzato stato di decomposizione. Per quattro giorni si era preso cura di quel corpo come se fosse ancora vivo; l’aveva asciugato dal sangue sulla fronte e strisciando fra le macerie della loro casa si era procurato acqua, pane e dei pomodori, e li aveva messi di fianco al viso della madre morta. Pensava stesse semplicemente dormendo.

I soccorsi della Croce rossa sono riusciti a raggiungere il luogo del massacro solo parecchi giorni dopo, perché impediti dai cecchini israeliani. Credo che basterebbe solo questo di episodio per far sì che domani, durante la manifestazione di Roma e la marcia di Assisi siano ben visibili cartelli e striscioni che ricordano il 729. Il numero che tutti dovremmo tenere impresso per riconoscere e boicottare i prodotti Made in Israel. Abbiamo l’opportunità di cambiare le cose senza appaltare il nostro desiderio di rimanere umani.

Restiamo umani

Articolo che Vittorio scrisse per il manifesto il 18 gennaio 2009 da Gaza