Potrebbe appartenere al romanzo di formazione famigliare L’inventore di se stesso (Bompiani, pp. 156, euro 16) di Enrico Palandri, libro intenso che attraversa i secoli per raggiungere di volta in volta una contemporaneità fatta di dettagli e di una diversità che tende a produrre un’erosione sentimentale continua e a tratti assurdamente dolorosa. L’inventore di se stesso segue il protagonista – Giorgio Licudis, un uomo di mezza età – mentre vive la nascita del primo figlio come un momento di congiunzione definitiva tra due storie familiari, la sua, quella dei Licudis che attraversa i secoli tra Venezia e l’Oriente, e quella della moglie – figlia di un piccolo industriale veneto fattosi con le sue mani tra furbizia e scaltro ingegno.

LA RICERCA delle radici diventa così il mezzo attraverso il quale finalmente provare con ostinazione a ritrovare una voce intima capace di coniugare una storia azzerata da un’attualità perenne con la pesantezza di una storiografia familiare densa, ma totalmente anaffettiva. Due mondi, due storie non solo incapaci di comunicarsi tra loro, ma nemmeno di ragionare sui sentimenti profondi che hanno mosso biografie ormai abbandonate a un passato irripetibile.
Ponendosi come ponte tra le due famiglie, Giorgio Licudis cerca un punto di collegamento, tentando di reinterpretare se stesso ritrovando e ricostruendo il proprio radicamento: amministratore delegato dell’impresa ereditata dal suocero, ormai amico del suo stesso padre, il protagonista si smarrisce tra le memorie di una famiglia esplosa tra la Russia e l’Oriente e si rivela tuttavia incapace anche di rintracciare un filo con la sorella e perfino con la sua stessa compagna di vita.
Enrico Palandri sfoggia una lingua aguzza capace di raggiungere tra le strettoie di dialoghi asciutti ed essenziali piccole rivelazioni. La memoria diviene uno strumento d’indagine prima ancora che di coscienza: non conta la verità, ma prima ancora la percezione del momento. La memoria come comprensione dell’oggi; via dunque i banali schemi che vedrebbero confrontarsi una famiglia arricchita veneta con una colta e aristocratica veneziana. Le fratture sono il prodotto del farsi stesso di radici che prendono spazio e deformano il terreno restituendogli certamente senso, ma anche variandolo spesso contro la volontà di chi lo ha attraversato e ancora lo attraversa.

L’INVENTORE DI SE STESSO è un romanzo sì famigliare, ma pure totalmente solitario, la voce è unica, quasi abbandonata a una perdita continua di coscienza che tracima memorie al posto di ricordi che appaiono invece ormai ridotti a brandelli di sensazioni poco adatte per comprendere una complessità sempre più invadente dentro cui la ricerca del proprio passato assume più che altro la forma di una codarda fuga. Enrico Palandri non fa pronunciare condanne, non fa azzardare nemmeno soluzioni, ma lascia scorrere.

I resti ondeggiano illuminati dal salire della marea come dal calare del sole. Romanzo fortemente veneziano vive della vibrante luce lagunare con l’alternarsi del passato con un presente malinconico, mai tragico eppure addolorato. Quello che per il ligure Italo Calvino era l’ubagu – l’opaco da cui riprendere luce e spazio – qui è il movimento di luce che si rifrange sullo specchio mobile della laguna. La malinconia di Giorgio Licudis è affine alla fuga e all’abbandono, ma è solo vicinanza, resiste infatti in lui un’icastica identità, un’irriducibile appartenenza a se stesso che lascia fuori tutto il resto, compresi il bene e il male.