Fine del ciclo populista. Ritorno del bipolarismo. Nuova stabilizzazione del sistema politico. Riavvicinamento tra Partito democratico e «popolo». Questi i modi principali con cui i mezzi di comunicazione hanno salutato le ultime elezioni amministrative.

Sono interpretazioni in parte vere, in parte illusorie, in parte interessate, per quanto riguarda sia il sistema politico che i singoli partiti.

Il sistema politico italiano è in crisi permanente dal 2011. Dopo il governo Monti, le elezioni del 2013 hanno reso impossibile perfino l’elezione del presidente della Repubblica. Si era ricorsi a un governo di larghe intese tra Pd e centrodestra guidato da Enrico Letta. Dopo l’avventura populista di Renzi e il governo Gentiloni, le elezioni politiche del 2018 hanno prodotto tre governi con tre maggioranze diverse, tornando alla fine alla formula delle larghe intese.

Rispetto a questa ‘lunga durata’ della crisi di sistema (che per alcuni versi potrebbe essere perfino retrodatata al 1992, da quando si verifica un’alternanza quasi continua tra vittorie populiste e governi tecnocratici o di larghe intese), ci sono segnali che stia tornando una situazione di stabilità?

In base al peso elettorale che le forze politiche sembrano avere attualmente, l’esito più probabile delle prossime elezioni politiche, e lo scenario dichiaratamente auspicato da ampi settori delle élite mediatiche, economiche e politiche italiane, è la prosecuzione dello schema-Draghi. Nessuno schieramento del supposto ritrovato bipolarismo sembra avere i numeri (e la compattezza) per governare da solo. Che la situazione di destabilizzazione permanente del sistema politico italiano prosegua, quindi, non è una possibilità remota.

Veniamo alle forze politiche.

Come già evidenziato anche su questo giornale, il risultato di elezioni amministrative non prefigura i risultati nazionali, il voto delle grandi città più ha una specificità irriducibile al voto di altre aree, il primo partito è l’astensionismo, il Partito democratico, rispetto alle precedenti amministrative, ha perso più voti di quanti ne abbia guadagnati e quella del centrodestra, complessivamente, si può considerare una sconfitta solo relativamente. Bisogna essere molto cauti, quindi, nell’affermare il ritorno del bipolarismo e la rinnovata vitalità del Pd. Il Movimento 5 Stelle è alle prese con un tentativo quasi estremo: trasferire il consenso personale di un leader su un partito che gli è per certi versi estraneo. Un ‘trapianto’ che rende già evidenti diversi cortocircuiti tra la leadership attuale, quella precedente, i gruppi parlamentari, la storia, l’identità e le forme organizzative originarie del partito.

C’è poi l’eterno problema della sinistra un tempo chiamata radicale.

A parte eccezioni importanti a Trieste, Bologna, Caserta e in Calabria (dove questa area politica fa registrare, con De Magistris, un risultato inedito per dimensioni), l’esito è come sempre molto negativo. Stare o non stare nel centrosinistra sembra non fare differenza: i risultati sono negativi per (quasi) tutti. I pochi risultati positivi si registrano però maggiormente con liste esterne al bipolarismo, a patto che riescano a costituire una novità o una rottura radicale e siano guidate da figure in grado di incarnarla.

C’è anche una dinamica più profonda. Tra le interpretazioni più diffuse in questi giorni, c’è quella secondo cui forme politiche emergenti come quelle del partito-movimento o del partito digitale (propria di partiti come Movimento 5 Stelle o Podemos), sarebbero declinate insieme al ciclo populista, e che si assiste a un pieno ritorno dei partiti tradizionali.

Innanzitutto, però, è difficile individuare tra i maggiori partiti italiani un partito ‘tradizionale’. In Italia la forza politica che ci si avvicina maggiormente è Il Pd, ma lo si può considerare ‘tradizionale’ (per organizzazione, elaborazione teorica, omogeneità interna, chiarezza del profilo politico, individuazione di una base sociale, diffusione sul territorio e consistenza della militanza) solo forzando il termine.

In secondo luogo, anche da questo punto di vista non bisogna scambiare l’apparenza immediata con la realtà: le forme politiche si trasformano con la trasformazione delle forme di organizzazione sociale, a volte in modo contraddittorio e con momenti di regressione. Non è un’elezione amministrativa a fermare un processo storico, se il processo è in atto.

Per la stessa ragione, è prematuro dichiarare finito il ‘ciclo populista’.

In generale, il quadro del sistema politico, la situazione dei partiti e l’evoluzione delle forme politiche restano magmatici e instabili. Lo spettacolo delle elezioni è andato in scena, ma la quasi totalità delle forze che hanno interpretato la pièce governano insieme. La politica resta neutralizzata dal governo tecnico e dalla propria crisi permanente. In questi contesti niente può essere escluso a priori, nemmeno la nascita e l’affermazione di nuove forze, soprattutto di fronte all’acuirsi dei problemi sociali.