Un team internazionale di psichiatri guidato da Joanna Le Noury dell’università gallese di Bangor e Jon Jureidini dell’università di Adelaide (Australia) ha analizzato i dati di uno studio sugli effetti della paroxetina, dimostrandone l’inefficacia e i pesanti danni collaterali. La paroxetina è un farmaco molto diffuso nella cura alla depressione tra gli adolescenti: nello scorso anno, solo negli Usa le prescrizioni del farmaco hanno superato i due milioni.

I dati analizzati, in realtà, non sono affatto nuovi, ma risalgono ad un trial (cioè la verifica dell’efficacia dei farmaci sui pazienti dopo la somministrazione) molto controverso, noto come «Studio 329». Lo studio si svolse tra 1994 e il 1997 e un’analisi dei risultati, finanziata dalla casa farmaceutica Glaxo-SmithKline, era già stata pubblicata nel 2001. Secondo i ricercatori che avevano elaborato i dati allora, la paroxetina era «ben tollerata ed efficace».

Ma i dati dello studio non erano stati pubblicati, cosicché nessuna verifica indipendente era stata possibile. Ora i numeri originali sono stati divulgati e gli psichiatri che hanno ripetuto l’analisi hanno scoperto che le conclusioni del 2001 erano quantomeno fuorvianti. Nel complesso il farmaco non aveva mostrato effetti positivi significativi sul gruppo di circa cento adolescenti studiato. I comportamenti suicidi, però, erano tre volte più frequenti.

Lo «Studio 329» era stato già oggetto di contestazioni da parte della comunità scientifica. Le varie inchieste condotte contro la casa farmaceutica avevano dimostrato che essa aveva condizionato la ricerca del 2001. Martin Keller, il primo autore della ricerca, era già finito sotto i riflettori per aver svolto attività scientifica senza dichiarare i suoi collegamenti con le case farmaceutiche. Molti aspetti fraudolenti dello studio erano emersi anche in altre azioni legali contro la Glaxo-Smithkline, che nel 2012 fu anche condannata a una multa di tre miliardi di dollari per le campagne di marketing ingannevole a favore della paroxetina.

Eppure, l’importante «Accademia americana di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza» non ne prese mai le distanze. Al contrario, proprio una degli autori dello «studio 329», Karen Wagner, ne è stata designata alla prossima presidenza.

Secondo il British Medical Journal, che ha pubblicato ieri il contro-studio che dimostra la falsificazione, anche il mondo universitario americano rimase silente, dimostrando complicità con la Glaxo-Smithkline. Ad esempio, la statunitense Brown University, di cui Martin Keller è tutt’ora professore emerito, non ha mai aperto un’inchiesta formale nei suoi confronti, nonostante gli scandali che lo coinvolgevano.

Per rompere l’omertà è stata necessaria la campagna «AllTrials» sostenuta da un gruppo di riviste scientifiche, enti di ricerca, fondazioni indipendenti su iniziativa di Ben Goldacre, giornalista del quotidiano inglese Guardian assai noto per le sue battaglie contro le frodi in ambito medico. La petizione per rendere pubblici tutti i dati sui trial farmaceutici, lanciata nel 2013, ha raccolto finora 86mila firme individuali e l’adesione di oltre seicento enti e associazioni. Il tema è particolarmente rilevante in quanto sono le stesse case farmaceutiche a finanziare molti trial sull’efficacia dei propri farmaci. Esse mantengono dunque la proprietà sui dati che, in caso di esito negativo, possono rimanere segreti. Il conflitto di interessi, a tutto danno dei pazienti, è evidente.

La Glaxo-SmithKline però è l’unica casa farmaceutica che ha aderito all’iniziativa AllTrials, accettando di pubblicare i dati reali sui propri farmaci. Proprio il suo atteggiamento collaborativo l’ha portata oggi nel mirino delle accuse. Questo forse convincerà molte altre case farmaceutiche a non aderire alla campagna.