«Dipingo quelle forme che mi ossessionano, che mi si agitano dentro», dichiara Gillo Dorfles. ‘Dentro’ sta per nel pensiero e nell’anima, nella mente e nel cuore.

E ‘agitarsi’ vale farsi – o ritrovarsi – contesto di concitazioni irrisolte che tornano imperiose su se stesse, pullulano uguali in ripetizioni che non arresti. ‘Ossessionare’, poi, è l’assillare che può giungere fino al tormento, alla possessione. Per ogni parte, entro di te, i movimenti ostruiti da un assedio che blocca, che costringe, che obbliga. Una imposizione di costrutti vincolati, di connessioni pregresse. Presenze, ovvero ‘forme’, che, mentre sorgono dal tuo profondo, si accampano come estranee: ti invadono, ti occupano e immobilizzano. «Dipingo quelle forme che mi ossessionano».

Dunque l’atto che conduco, nel dipingerle, queste forme, equivale alla liberazione dall’assedio. Per Dorfles, dipingere è concentrare e raccogliere le energie necessarie a infrangere la coazione interna portandola ad emersione. Da dentro a fuori, per così dire. Dipingere ovvero una immediata registrazione, una fattura diretta e l’esibizione d’un referto. A vent’anni, nel 1930, Dorfles, grazie a un inchiostro di china nero e a qualche tratto di matita, elimina il diaframma interno-esterno trasferendo sulla carta, in delineati e compiuti connotati, le ‘forme’ che lo ossessionano. Dal 1930 al 2016 corrono ottantasei anni lungo i quali il dipingere e il disegnare di Dorfles (così come il suo plasmare e colorar terrecotte) si muove, articola e compone (varia il formato, variano i cromatismi) entro il perimetro profilato nei quattordici centimetri per ventidue che misura la carta ‘eponima’ del 1930.

Luigi Sansone, autore del «Catalogue raisonné» dell’opera pittorica di Dorfles e suo attento e fine esegeta (e di Sansone si legga il puntuale saggio critico contenuto nel catalogo Skira della mostra «Gillo Dorfles. Essere nel tempo», allestita ora presso il Macro di Roma) sostiene a ragione che «è già racchiuso nelle tre figure che il giovane Dorfles ha delineato» nel 1930, l’intero suo mondo. Tre «figure». Sull’aspetto, la fisionomia, la riconoscibile natura di queste ‘forme’, paiono a me illuminanti le parole di Dorfles medesimo. Le estraggo da «Poesie. 1941-1952», il prezioso volume curato nel 2012 da Luca Cesari per l’editore Campanotto. Versi, ha scritto Dorfles, che «costituiscono l’unico mio incauto tentativo di esprimere il mio ‘animus’ con delle parole con una qualche atmosfera lirica». Trascriverle numerose equivale descrivere – ora questa ora quella – le numerose pitture esposte nelle sale del Macro.

«Molluschi incrostati sul fondo (…) ulcere/tonde, cicatrizzate,/hanno un cercine scuro (…) brulicano le prime larve (…) alveoli/grovigli di lucide anse/intestinali avvolte dall’omento (…) molli interiora (…) vibratili,/Nelle papille profonde/Dei nostri nervi, o forse più addentro/Nei recessi inesausti dell’Io. (…) vortici gialli (…) cupa/nube (…) anse violette (…) oblungo pendaglio verde (…) Il rosso ricamo/Dei polmoni (…) Creature appassite e contorte (…) informe embrione/D’infante acefalo (…) Il molle sterco. (…) spettri d’immagini spente (…) Stilla un liquame nero (…)».

Questo scorrere interno è restituito nei termini della pittura come, con clinica perizia, si darebbe l’anamnesi di antecedenti fisiologici e patologici che durano. Rese autonome, nel loro affiorare continuo le forme di Dorfles svariano in smaglianti accostamenti cromatici, insinuano attraenti abbandoni all’insegna del gioco. Dalle scaturigini oscure del dolore salgono al fiore della superficie luminose scaglie di felicità.