Due cineaste sbarcano a Venezia, due figure molto diverse tra loro accomunate, tuttavia, da un background sperimentale. Rä di Martino ospite dello spazio «Cinema nel giardino» e Alessandra Pescetta che presenta invece il suo cortometraggio nella sezione «Orizzonti».
La prima, formatasi tra Londra e New York, si è sempre divisa tra il mondo del cinema e dei festival e quello delle arti visive e dei musei (esponendo tra l’altro al PS-1, alla Tate Modern e a Palazzo Grassi); la seconda è autrice di numerosi videoclip musicali (a partire dai primi anni ’90), cortometraggi, pubblicità e diversi lavori di carattere videoartistico, oltre al lungometraggio La città senza notte realizzato due anni fa. È la prima volta che Pescetta propone un suo film alla Mostra, mentre di Martino era presente qui due anni fa con il suo The Show MAS go on.
Per il suo esordio nel lungometraggio Rä di Martino non solo ha scelto come sfondo il Marocco (Marrakesch per la precisione), dove aveva ambientato un altro suo lavoro, Copies récentes de paysages anciens (2012), consistente in un cortometraggio/installazione e in una serie fotografica, ma ha deciso di prendere spunto da un’opera «minore» del cinema americano, The Swimmer (1968), uscito in Italia con l’ammiccante titolo di Un uomo a nudo. In quel film – tratto da una novella di John Cheever e diretto da Frank Perry – un uomo di oltre 50 anni (Burt Lancaster), vestito solo del suo costume da bagno, decide di ritornare a casa attraversando a nuoto, per gioco e per sfida, le varie piscine di amici e conoscenti che lo separano dalla sua abitazione. Controfigura naturalmente non è e non vuole essere un remake e non è neppure un normale film narrativo. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che l’approccio dell’artista alla narrazione filmica è assolutamente particolare, non lineare, ma soprattutto – pur utilizzando spesso e volentieri interpreti di un certo nome, come in questo caso Filippo Timi e Valeria Golino – di Martino è più interessata agli aspetti processuali della messa in scena. Controfigura è il classico esempio di metacinema, che «gioca» a trasporre il film scomponendolo su più livelli. Il primo è quello della pre-produzione, con Corrado Sassi (nella realtà attore ma anche regista e molto altro) che si presta, come controfigura, a impostare le scene che saranno poi interpretate da Timi. In questo stesso contesto la regista racconta anche delle difficoltà nel reperire le giuste (ed economiche) piscine dove poter girare il film. Il secondo livello non si limita solo a mostrarci alcune sequenze-chiave, ma ipotizza anche come sarebbero recitate da attori locali: questo «doppio sguardo» serve sia a depurarci dal nostro etnocentrismo sia a rendere più multiculturale e plurilinguista la struttura del film, già produttivamente internazionale (l’origine è talo-svizzera-francese-marocchina).
La regista punta così sull’incontro/scontro tra immaginari (Hollywood, il cinema italiano, il Marocco) per dare vita a un’opera volutamente incompleta, che non porta a risoluzione la vicenda come nella pellicola originaria (che rimane solo un pre-testo), ma diventa apologo sull’impossibilità stessa di dare forma a un film.
L’ombra della sposa – unico cortometraggio sperimentale presente nella sezione veneziana – è tratto dall’imponente romanzo di Stefano D’Arrigo Horcynus Orca, anzi ne visualizza solo una scena, quella in cui lo scrittore descrive gli ultimi istanti di vita di alcuni soldati immersi nelle profondità del Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale.
Il sonoro è costituito dalle frasi delle lettere che uno di essi si scambia con sua moglie (i due interpreti principali sono Giovanni Calcagno e Angela Ribaudo). Le immagini liquide e decolorate si configurano come una funebre e rallentata danza di corpi, vesti, oggetti e altri elementi che diventano fortemente simbolici. Naturalmente i morti del passato evocano i fantasmi del presente e, mettendo in scena il passaggio dalla vita alla morte di questi soldati, Pescetta allude, con un approccio fortemente visionario e astorico, alla tragedia dei migranti che annegano quotidianamente nello stesso mare, vittime di una guerra eterna, altrettanto mondiale, anzi globale. «Gira e rigira, alla fine ci troviamo sempre davanti a un mare, e per andare dove siamo diretti, ci tocca superarlo. C’è sempre un mare rosso, un mare vivo o morto, che si para davanti a chi va ramingo, in cerca di casa…», scrive D’Arrigo e queste sue parole sono la migliore introduzione per comprendere il senso de L’ombra della sposa, un lavoro che potrebbe essere benissimo ripensato sotto forma installativa.
Controfigura e L’ombra della sposa sono curiosamente legati tra loro dall’elemento dell’acqua, dispositivo di vita e di morte, luogo di sospensione e di performance totale, soglia da attraversare per prendere consapevolezza della propria esistenza passata o futura.