Sono tra gli unici tre italiani in questa edizione di Cannes, con il cortometraggio Quello che verrà è solo una promessa, frutto di ben 9 anni di gestazione e co-prodotto da tre paesi (Italia, Olanda e Nuova Zelanda). L’autore è Flatform, un collettivo di artisti o, meglio, un “artista collettivo” come amano definirsi, conosciuti paradossalmente più all’estero che in Italia con i loro film che hanno sempre una versione installativa o performativa, come anche in questo caso, dal momento che il film sarà proiettato su uno schermo “elastico” ideato appositamente per l’occasione (si potrà vedere in questa forma alla Biennale Screen City in Norvegia a settembre). Tra i titoli più recenti di Flatform ricordiamo: Movimenti di un tempo impossibile (2011), Un luogo a venire (2011), Trento Symphonia (2013), Quantum (2015), 11 Trails (2018), riflessioni sulla realtà e sui suoi elementi costitutivi, mediante l’elaborazione di un dispositivo visuale applicato a un determinato luogo elevando quest’ultimo a dispositivo-mondo. Nel caso di Quello che verrà è solo una promessa il luogo-dispositivo è un’isola dell’arcipelago Tuvalu nel Sud-Pacifico che, filmato in un unico piano-sequenza di 22 minuti (totalmente reale) insieme ai suoi abitanti, diventa una potente metafora del cambiamento epocale del nostro pianeta, una sorta di aleph borgesiano da cui osservare il futuro.

Quello che verrà è solo una promessa verrà presentato in anteprima italiana a settembre al Museo del cinema di Torino, che pubblicherà per l’occasione un volume monografico sul lavoro di Flatform, edito da Silvana Editoriale, con contribuiti critici internazionali.

Che effetto vi fa essere selezionati a Cannes e, per giunta, con un lavoro di carattere non-narrativo?

Sicuramente ci fa un immenso piacere poter presentare quest’ultimo progetto all’interno della Quinzaine, il luogo forse più appropriato per questo film. E’ un giusto riconoscimento per noi e per tutti coloro che hanno creduto in un progetto estremo e dalla non certa possibilità di riuscita. Ogni film, a suo modo, narra e, scorrendo l’elenco degli altri nove cortometraggi presenti alla Quinzaine, si nota che quest’anno la sezione ha coraggiosamente allargato il concetto di narrazione ad autori che sfuggono alla classica codificazione dello storytelling un po’ mainstream.

Funafuti, l’isola dove è stato girato il film, è un luogo concreto ma anche simbolico, attraverso il quale studiare gli effetti, purtroppo catastrofici, del global warming; un luogo “profetico” destinato forse a cambiare irreversibilmente nei prossimi decenni. L’idea iniziale mi sembra, dunque, coniugare, come fate sempre, un lavoro sullo spazio, con un approccio antropologico, ma anche ecologico, ambientalistico, dunque alla poesia si aggiunge anche la politica…

Tutti i nostri progetti hanno come punto di partenza l’intuizione spinoziana che nulla esiste dalla cui natura non segua un effetto. Quindi, anche in questo caso, siamo partiti dall’ esistenza di un effetto di un dato naturale: l’allagamento temporaneo delle terre di un’isola, in più momenti dell’anno, da parte di acqua salata che sgorga dal suolo a causa dell’innaturale surriscaldamento delle acque dell’oceano. Quello che ci interessava fin dal 2010, da quando è stato ideato il film, era il momento di passaggio da uno stato a un altro di quel luogo e il rapporto che si instaura tra l’attesa degli avvenimenti che si suppone verranno determinati da quell’effetto e la sorpresa determinata dal compimento o meno dell’oggetto di quell’attesa. Lo scarto che si attua tra l’immaginario prefigurato e l’evento, è quello che ci interessava. L’attesa di qualcosa che non si sa cosa è, diventa molto prossima all’atto del pensare. Ma questo stato di abbandono non può che farsi interrompere dalla sorpresa, dal deflagrante e reale processo sospensivo dell’inatteso.

Per quanto riguarda l’aspetto politico invece?

Lo definirei bio-politico ed è più determinato dal processo dissociativo e, poi, riassociativo che attuiamo sugli svariati elementi del paesaggio, delle azioni e dell’immagine stessa, prefigurando una sospensione dell’esperienza ordinaria che isoli la vita di diversi punti di questi insiemi riconfigurandoli in un nuovo rtapporto col mondo. Questo procedere è bio-politico perché nell’atto della riassociazione si compie una riscrittura che diventa un tentativo di liberare la vita da qualcosa che la imprigiona al puro sentimentalismo. Che poi questo progetto possa essere iscritto, impropriamente, nell’ambito di un ambientalismo sterilmente modaiolo non è cosa che ci appartiene. Noi ci occupiamo di creazione e non di comunicazione o informazione.

Ci sono voluti diversi mesi per realizzare il film, parlo sia di riprese che di post-produzione, immagino che nel frattempo il concept iniziale sia mutato, anche se i vostri lavori non lasciano troppo spazio all’improvvisazione, tutto sembra pianificato al millimetro (e al secondo).

Tutto è stato pianificato nei minimi particolari, sia dal punto di vista del concept, che da quello tecnico. L’unico elemento che, come previsto però dal progetto, ha visto una sorta di work in progress, dal momento in cui siamo arrivati sull’isola di Funafuti fino all’inizio delle riprese, è stato quello della stesura delle azioni che gli abitanti-attori dovevano compiere, ovvero quella che noi definiamo partitura coreografica. E con nostra grande e inaspettata sorpresa abbiamo visto che la nostra idea astratta della coppia attesa/sorpresa aveva un suo corrispettivo esistenziale nella vita sull’isola, rendendola, così, quasi aderente ai comportamenti degli abitanti.

Come avete lavorato con gli abitanti dell’isola?

Le lavorazioni, la vita insieme e la corrispondenza empatica con loro sono state tra le esperienze più straordinarie vissute all’interno di questo progetto. Entrando nei particolari del processo di lavoro con loro, questo si è incentrato prima in un coinvolgimento, attraverso varie forme di comunicazione, di una cinquantina di abitanti di diverse età, poi in una serie di workshop nei quali spiegavamo e attuavamo le diverse azioni che volevamo fossero realizzate durante le riprese. La grande difficoltà, sia da parte loro che da parte nostra, è stata quella di riuscire a ottenere un’estrema precisione nella ripetizione, a distanza di molti giorni, delle stesse azioni nei minimi particolari, sia spaziali, che gestuali e temporali.

Ci parlate dello schermo concepito per la versione installativa del film?

Si tratta di un grande schermo computerizzato e motorizzato che passa dalla contrazione alla espansione, dalla dimensione 4:3 a quella in 16:9. Questi movimenti dello schermo, sincronizzati al film, permettono alle immagini di ampliarsi o restringersi quasi in un dialogo ideale con le contrazioni e le dilatazioni che l’acqua compie in quei territori. Il dispositivo e le modalità di fruizione sono molto diversi dalla proiezione in sala. E cambiano da progetto a progetto, impedendoci quindi di poterne fare una sorta di dichiarazione di intenti generale. In questo specifico caso, il dispositivo doppia e amplifica il passaggio, e l’esperienza che se ne ha, dall’attesa alla sorpresa, così come dalla desertificazione all’allagamento.

In questo, così come in altri vostri film e installazioni è basilare l’estetica della continuità (il piano-sequenza in cui accadono tante microazioni) e della trasformazione continua dell’immagine anche in relazione ai mutamenti del tempo (cronologico e meteorologico)

E’ vero. Questa continuità è una continuità spaziale e temporale: l’attraversamento dell’isola in un unico piano-sequenza della durata reale. Però, a questa apparente unità fa da contraltare l’atto di continua trasformazione determinata dalla contrazione o dalla espansione del protagonista principale del film, ovvero l’acqua. E queste trasformazioni intervengono con una loro inattesa fluidità, accentuando così il carattere quasi naturale di un salto temporale così evidente. E’ solo l’unità di spazio che, da una parte accentua la sorpresa, ma dall’altra la normalizza in una continuità narrativa che, nella sua quasi-impossibilità, diventa plausibile, se non familiare. In questo film, si scompaginano le carte delle diverse codificazioni del tempo, da quella esperienziale a quella cronologica, fino a quella fisica. Fermo restando che a noi interessa, sopra tutti, il tempo poetico.