In una recente intervista sullo stato delle istituzioni democratiche nel nostro Paese («la Repubblica», 26 Maggio), Gustavo Zagrebleski invita i lettori a riflettere sul rapporto fra paesi creditori e paesi debitori in Europa: «Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone». Zagrebleski ricorda opportunamente che la crisi delle istituzioni europee trae origine dall’incapacità di trattare in modo adeguato la relazione fra creditori e debitori e lascia intendere che la proposta di riforma della Costituzione italiana vada compresa alla luce di questo processo: «la politica è ridotta a dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone» e «l’implosione è sempre in agguato».

Un problema di scambio

Da più parti in questi anni è emersa la necessità di ripensare le istituzioni, non solo europee, a partire da una comprensione di ciò che Karl Marx definisce nei Manoscritti economico-filosifici «il vincolo di tutti i vincoli»: il denaro. Lo scontro fra sistema bancario ombra e istituzioni statuali per controllare e legittimare l’emissione monetaria e la trasferibilità dei crediti è stato descritto con un certo successo nel best seller di Felix Martin, pubblicato in Italia da Utet nel 2014, Denaro. La storia vera. L’instabilità finanziaria è il risultato di strutture istituzionale inadeguate come Luciano Gallino ha cercato di spiegare, con una disperata attenzione, quando già nel 2012 ricostruì le tecniche di ingegneria finanziaria che – sfruttando l’indipendenza delle Banche Centrali – costringono le politiche monetarie a regolarsi sull’andamento dei mercati, con i soldi degli altri. Affascinati come siamo dal denaro, sappiamo ben poco della moneta, cioè delle possibile strutture normative in grado di assegnare una misura alla liquidità che sconvolge le relazioni umane. Il libro di Massimo Amato, L’Enigma della moneta, pubblicato in questi giorni da Orthotes in una nuova edizione, ha l’ambizione di pensare il rapporto fra moneta e normatività.

La tesi centrale del libro è che la moneta – in quanto istituzione – resta un tema non affrontato dalla scienza economica. Questa sarebbe dunque una disciplina che non si interroga su ciò che è verosimilmente la sua unità di misura. Infatti una riflessione sullo scambio che riduce la moneta a semplice strumento, a variabile di comodo dalla quale può dipendere al più il livello generale dei prezzi, non può che pervenire a indicazioni normative del tutto infondate.

Nel saggio introduttivo, l’autore sottolinea che la struttura istituzionale della moneta contemporanea coincide con la sua dis-istituzione. Ciò che è propriamente universale e locale nella moneta è l’oggetto dei capitoli successivi. Qui Amato sottolinea che la forza simbolica della moneta non può essere ridotta né ad una sua caratteristica naturale, né a giudizio di valore. In quanto emblema istituito in nome di una sovranità, la moneta rimanda alla fondazione di una legittimità. È a questo punto che il discorso di Amato potrebbe essere frainteso, come se fosse completamente ripiegato verso un contesto pre-capitalistico e assolutista – un problema per inciso che emerge ogni qual volta si cerca di mettere in relazione la moneta con una dimensione comunitaria.

Seguiamo allora i suoi passi, che a loro volta possono ricondursi ad un passaggio di Keynes cui spesso non si presta attenzione: «Sono stato educato a ritenere che l’atteggiamento della Chiesa medioevale nei confronti del tasso di interesse fosse essenzialmente assurdo» tuttavia «adesso mi pare chiaro che le disquisizioni degli scolastici erano dirette a chiarire una formula che permettesse alla scheda dell’efficienza marginale del capitale di essere alta, pur impiegando la norma e la consuetudine e la legge morale per tener basso il tasso di interesse».

La questione genealogica dell’uso proprio del denaro – che non ha diritto di cittadinanza nella scienza economica – conduce a ripercorrere una storia del pensiero monetario che scorre come un fiume carsico al di sotto della storia ufficiale della scienza economica, e che porta Amato a rileggere Aristotele, San Tommaso e lo stesso Keynes.

Le dimensioni del valore

Cosa accomuna dei pensatori così distanti fra loro? Il fatto di rendersi conto del pericolo che si cela dietro una cattiva modalità di istituire la moneta: in quanto elemento essenziale di delimitazione degli scambi, la moneta deve essere istituita come limite. Ciò non deve tuttavia significare – come si legge nei manuali di economia su cui si sono formati tanti policy maker – che il controllo della domanda globale può essere operato solo controllando la quantità di moneta in circolazione, magari ripristinando un gold standard. In effetti il problema – già presente sotto il profilo metafisico nel V Libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele – è quello marxiano di fare i conti con la dimensione del valore che si auto-valorizza. Esiste la possibilità di una moneta adeguata a processi di valorizzazione che siano fuori dalla logica del sovra-potenziamento capitalistico?

Sostenere – come fa Amato – che «la moneta è davvero neutrale quando essa è capace di sparire per dar luogo a una comunità di umani all’opera» non significa vaneggiare un mondo arcaico in cui si rigetti l’evoluzione tecnologica, il problema del finanziamento degli investimenti o della remunerazione della vita activa. Significa cercare altre norme oltre l’imperativo dell’efficienza, senza ridurre erroneamente la moneta a ricchezza astratta, combattendo la legittimazione dei creditori che accumulano moneta per costringere i debitori ad un rapporto durevole e intensamente nichilistico. Un invito che andrebbe accolto da coloro che non hanno a cuore solamente i propri bisogni, ma quegli spazi comuni in cui è possibile ripensare la normatività.