Sono collocati da tempo al centro del dibattito in Italia, e non solo, l’uso politico della storia, la formulazione di leggi memoriali ad hoc e il tema, già discusso in Parlamento, di una codificazione normativa. Codificazione che si proporrebbe di sanzionare giuridicamente veri o presunti «negazionisti», determinando una torsione del senso del passato schiacciata sulla misura minuta del quotidiano. Un processo di questa natura comporta una semplificazione dei termini della complessità storica che, in ultima istanza, pone una questione di grande rilievo sul piano della memoria e dell’identità stessa della nostra società.

Da un quindicennio attorno al Giorno del ricordo si consuma un conflitto storico-memoriale che in alcuni casi ha finito per esorbitare nella dimensione politico-diplomatica (basti pensare all’aspra polemica tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’allora Presidente del consiglio croato Stipe Mesic e lo scrittore italo-sloveno Boris Pahor).

Questo conflitto è caratterizzato da un non detto pubblico relativo all’eredità fascista dell’Italia post-bellica che impedisce, di fatto, una completa ricostruzione ed un compiuto conferimento del senso della storia consumatasi sul nostro confine orientale e sfociata nelle violenze subite dagli italiani in quelle terre prima nel 1943, dopo lo sbando dell’8 settembre, e poi nel 1945.

Quanti conoscono in Italia il generale Mario Roatta e le misure di repressione di civili e partigiani jugoslavi riassunte nella sua «Circolare 3 C»? quanto l’opinione pubblica viene resa edotta della condotta del «governatore del Montenegro» Alessandro Pirzio Biroli, del generale Mario Robotti, per il quale in Jugoslavia «si ammazza troppo poco», o del generale Gastone Gambara che nel 1942 scriveva «logico e opportuno che campo di internamento non significhi campo di ingrassamento»?

Quanti sanno che delle migliaia di «presunti» criminali di guerra italiani inseriti nelle liste delle Nazioni Unite alla fine del conflitto nessuno venne processato in Italia o all’estero? Il mito degli «italiani brava gente» ha ragion d’essere di fronte alla consolidata storiografia che ormai da decenni ha ricostruito documentalmente i crimini di guerra del regio esercito e delle formazioni fasciste?

Fu Mussolini stesso, d’altro canto, il 22 settembre 1920 a Pola, ad anticipare ciò che sarebbe accaduto «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone […]credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

I mancati conti col nostro passato fascista, dunque, impediscono di dare compiuta attuazione alle stesse disposizioni del Giorno del ricordo che si propone da un lato di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo» e contestualmente di affrontare «la più complessa vicenda del confine orientale». Senza una ridefinizione della complessità storica le foibe vengono presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali.

In realtà l’Esercito Popolare di Liberazione comandato da Josif Broz Tito combatté contro tutti gli eserciti di occupazione e contro tutti i loro collaborazionisti, indipendentemente dalla loro nazionalità: gli ustascia croati, i cetnici serbi, i domobranci sloveni, i nazisti tedeschi ed i fascisti italiani. E sostenne quella lotta di liberazione con al fianco migliaia di soldati italiani unitisi alle formazioni partigiane dopo l’armistizio. Contestualmente un gran numero di jugoslavi deportati in Italia nei campi di internamento dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani italiani nella Lotta di Liberazione Nazionale da cui è nata la Costituzione della Repubblica.

L’uso strumentale delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe ha trovato espressione, nella cronaca politica, negli scomposti attacchi del ministro dell’Interno all’Anpi e nel paradossale voto della commissione Cultura della Camera che, indice del grado di erosione democratica del nostro tempo, vorrebbe impedire all’associazione dei partigiani, che il Parlamento riaprirono dopo il terrore del ventennio fascista, di parlare nelle scuole pubbliche del confine italo-jugoslavo durante la seconda guerra mondiale.

Di quella storia invece è indispensabile parlare. Rosario Bentivegna, comandante dei Gap a Roma e combattente in Jugoslavia, insisteva sempre nel dire «più ancora di ciò che abbiamo fatto noi partigiani si deve parlare di ciò che è stato il fascismo. Solo così sarà possibile seppellirlo per sempre».