A partire da oggi – e per tutti i giovedì del mese – un’iniziativa che prevede quattro racconti scritti da Mariangela Mianiti che hanno come tema le vite da condominio. Sono quattro storie divise in altrettanti capitoli: «Lato cortile», «Lato strada», «Interno scala», «Affaccio su piazza». Buona lettura.

Non è vero che in estate in città ci si annoia. Se ci si fa attenti, ognuno può diventare un flâneur visionario del vicinato, merito delle finestre che restano più aperte che chiuse, a meno che si abbiano le tende o l’aria condizionata, nel qual caso si è privati di un punto di osservazione vitale.
Una delle ragioni per cui tanta gente sceglie di vivere in città anche se è meno amena della campagna, meno divertente del mare e meno salubre della montagna, è perché non si è mai soli anche se si è da soli, e questo è sia un vantaggio che uno svantaggio. Basta aprire le finestre, affacciarsi o ascoltare, e vite intere ti entrano in casa, volenti o nolenti, e questo è di nuovo sia un vantaggio che uno svantaggio, dipende dai momenti e dai punti di vista.

L’appartamento dove vivo, a Milano, ha tre affacci: lato cortile, lato strada, lato piazza. Poi c’è la vita interna del condominio che è come un quarto affaccio sulle budella, su quel ribollire di relazioni obbligate che spesso tirano fuori il peggio delle persone.
Il mio lato cortile ha una storia variegata sia nel tempo che nella logistica. Siccome il nostro palazzo è sull’ angolo di una piazza e un tempo faceva corpo unico con le case delle vie laterali, quando dopo la guerra gli occupanti diventarono a poco a poco da affittuari a proprietari, decisero che bisognava dividere anche i cortili. Tirarono una retta perfetta dalla strada verso l’interno e andò a finire che noi, che eravamo il caseggiato più grande, ma d’angolo, ci ritrovammo con il cortile più piccolo. La legge della geometria, della piccola proprietà e del catasto non sempre rispetta quella dell’intelligenza. La prima cosa che viene da dire guardando giù è: «Ma guarda che Bosnia hanno fatto». L’ansia di definire ciò che è mio e ciò che è tuo ha fatto inglobare un deposito di là, un magazzino di qua, una siepe a destra, una pianta a sinistra. Gli unici scemi a non aver mantenuto una frasca siamo noi.

Per fortuna, hanno alzato muri bassi sormontati da una ringhiera, e questo mi permette di seguire dalle finestre la vita dei cortili di quattro palazzi e, più o meno, quella di 40 appartamenti.

Quando arrivai qui, il secondo cortile lato sinistro e relativo palazzo cadevano a pezzi. Erano i resti di una tipografia che aveva chiuso o si era trasferita, con gran gioia degli abitanti perché di notte le rotative marciavano e «Sembrava di averle dentro la camera da letto», mi ha raccontato una signora. La casa rimase cadente per due o tre anni, finché una società la comprò, la divise in appartamenti che ristrutturò con finiture di lusso e li vendette al quadruplo del prezzo acquistato.

Fra gli atout c’è anche l’irrigazione automatica delle fioriere che servono a camuffare i ballatoi da ringhiera. Funzionano così bene che oggi quel cortile, con annessi e connessi, assomiglia a una giungla. Davanti al loft a piano terra, i rampicanti sono così cresciuti che hanno coperto le finestre. All’inizio si intuivano feste, inviti a lume di candela, si vedeva un cane peloso andare e venire. Ora più nulla, come se chi vive lì adesso ami stare dentro una tomba.

L’appartamento sopra il loft è un duplex con una cucina ricavata, sa dio con quale autorizzazione, da un terrazzino adiacente. Appena entrati, i proprietari hanno dovuto cominciare a mettere pezze. Prima di tutto hanno installato due condizionatori giganti sopra le mansarde, segno che si soffocava per mancanza di riscontro d’aria, poi hanno ristrutturato cucina e relativo tetto perché perdeva. Infine, hanno installato due cancelletti che li separano meglio dal resto del ballatoio. Appena terminati questi lavori, il marito decise di lasciare la moglie. Lo so perché quella notte non riuscii a dormire. Lei piangeva e si disperava sulla terrazza, lui la guardava seduto e fumando in silenzio. Si vedeva solo la sua brace che diventava più vivida quando aspirava. Lui la lasciò piagnucolare fino al mattino, poi prese le valigie e uscì, con lei che lo rincorreva in camicia da notte dicendo «Non te ne andare, non te ne andare».

Una scena analoga è capitata nel piccolo edificio a un piano che sta nel primo cortile lato sinistro. Ci abita una coppia che ha perennemente lo stendibiancheria accanto alla porta, che piova o sia buio. Una sera di luglio dell’estate scorsa, verso mezzanotte, cominciò una litania di «Ma dove sei stato? Perché, perché mi fai questo? Cos’ha lei meglio di me? È giovane eh? Dillo che è più giovane e bella di me, dillo. Confessa. Aiuto, aiuto. Adesso mi ammazzo, mi ammazzooooo». Sei ore è andata avanti così, con lui che le diceva «Shhh, calmati, calmati», e allora lei urlava di più, usciva di casa, lui la riportava dentro finché, alle sei del mattino, all’improvviso la giaculatoria è finita.
Mi sono affacciata e ho visto lui che sgattaiolava fuori di casa guardandosi indietro, per paura che lei si svegliasse e ricominciasse. Da allora ho visto entrare e uscire solo lui e lo stendibiancheria è esposto a giorni alterni, segno che è tornato single.

Lo stesso cortile è anche un esemplare in via di estinzione, in quando è uno dei pochi a Milano a ospitare ancora bambini che giocano. Nei pomeriggi più caldi, due o tre signore scendono lì, si siedono su alcune sedie di plastica colorata, aprono la canna dell’acqua e cominciano a spruzzare i loro figli in costume.
Le mamme ciacolano e spruzzano, i bambini saltano, gridano «Ancora, ancora», si rincorrono, giocano a palla, fanno la corda fregandosene se ogni tanto sbattono contro lo stendibiancheria dell’inquilino fedifrago. Viene voglia di buttar giù il muretto che ci divide e di dirgli: «Venite anche da noi a fare un po’ di animazione, che intanto il cortile si lava».
Gli altri due punti focali di quel lato, e nello stesso palazzo, sono i due appartamenti dell’ultimo piano, il quarto. Entrambi godono di un privilegio raro a Milano, hanno due terrazzi, uno ampio davanti e uno più piccolo dietro che compensano le poche stanze interne, il tetto spitinfio, le perdite d’acqua e i piccioni che stazionano sul cornicione.
In quei due appartamenti ho visto la vita crollare in pochi anni. In quello più a destra, all’inizio c’era una coppia di mezza età che aveva creato lungo il bordo del terrazzino una cornice di agavi rigogliose. Ogni tanto uscivano a prendere un tè. Poi le piante sono sparite e la finestra si è aperta solo una volta, una domenica pomeriggio di un agosto bollente, quando un uomo non vecchio, magro, in calzoncini e canottiera bianca a costine, ondeggiava tenendo in mano una scopa, ma invece di pulire ci si appoggiava fissando il pavimento.

Era solitudine pura, di quella brutta, che trova rifugio negli psicofarmaci.
Quelli accanto, invece, sono due abitanti di un tipo depresso diverso. Prima lì ci abitava una madre single con una perenne ruga fra gli occhi che teneva tutto lindo e la sera fumava una sigaretta affacciata alla finestra del bagno. Quando è arrivata la coppia di adesso, è cominciato il casino tant’è che ora il terrazzo sembra una discarica. Hanno installato: una lastra di plexiglas opaco per schermare la porta finestra, quattro fili pencolanti per la biancheria, due veneziane che si sono imbarcate per colpa del vento, un armadietto di plastica, uno di metallo, alcuni scaffali da magazzino, piante di aglio morte e, quando stendono, espongono biancheria color vinaccia che staziona sui fili per giorni interi.
Ogni tanto mi viene voglia di mettere uno specchio alla mia finestra per ributtargli in faccia che cosa mostrano di sé al mondo. Ma non si affacciano mai, e questo spiega perché sono così tristi

(1 – continua).