«Gli appelli all’unità (…) non servono a nulla» ha scritto recentemente Alfonso Gianni (Alternative per il socialismo, 12 maggio). Unità: un termine impronunciabile in un contesto di sconfitta storica, di polverizzazione della nostra parte, che continua ad accentuarsi secondo linee progressivamente divergenti. Unità: un termine vuoto, evocativo solo retoricamente in una realtà contraddittoria, esito di un lungo periodo nel quale le rappresentanze politiche di questa nostra parte hanno dimostrato di non possedere le qualità soggettive necessarie adatte alla costruzione di un punto di resistenza/forza di fronte agli oggettivi svolgimenti di logiche economico-sociali disgreganti ad ogni livello. Un termine che fa riferimento ad un esercizio di volontà politica in un periodo in cui si teorizza l’impossibilità di questo esercizio, dato che non esistono le condizioni culturali né quelle sociali per un’azione di qualche utilità da parte di organizzazioni politiche ormai residuali. Unità fra chi e per che cosa, dunque?

Su questo giornale Marco Bascetta (18/5) e Marco Revelli (23/5) hanno fatto una descrizione largamente condivisibile del «cattivo nuovo» in cui siamo immersi, ma le loro conclusioni sono il frutto di un approccio analitico sul quale certamente dobbiamo riflettere. Mi sembra però che tale approccio, basato sulla logica della «tabula rasa», finisca per incentrarsi su un aspetto molto parziale e riduttivo del che fare.

Bascetta ipotizza che le «figure sociali», che pure sono state protagoniste della creazione del «cattivo nuovo», non «accetteranno di essere disciplinate dall’ordine che ne è scaturito». Revelli indica nell’immersione «nella materialità della vita comune», come «corpi tra corpi», la via attraverso cui possiamo «imparare il nuovo linguaggio», che non deve avere niente in comune con il vecchio linguaggio ormai fuori asse rispetto all’attuale produzione di senso.

Ci troveremmo, insomma, in un mondo nuovo, un mondo di cui non conosciamo le coordinate del rapporto tra linguaggio e organizzazione del reale, i meccanismi attraverso cui invertire la tendenza alla «dissoluzione del “noi”».

Nel 2010, nel momento più acuto dello scontro relativo al mutamento unilaterale delle relazioni industriali nello stabilimento Fiat di Pomigliano, Sergio Marchionne faceva questa dichiarazione di esemplare chiarezza: «Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa». Da una punto di vista opposto Marchionne ha espresso, quindi, la stessa convinzione relativa all’ipotetico esaurimento di un’intera epoca storica.

Indipendentemente dalle logiche immediatamente politiche della vasta area marchionnesca, di cui il Pd con i suoi satelliti, comunque collocati, è parte organica, area tesa a solidificare il nuovo mondo del «paradiso dei padroni», la questione è anche aspetto di dibattito storiografico. Alcuni studiosi, infatti, sostengono che l’uso dell’espressione «storia contemporanea» per periodizzare la nostra epoca non possa ormai giustificarsi che per motivi di opportunità. E questo non è problema che riguarda il settore degli specialisti, bensì un nodo centrale del rapporto tra teoria, cultura politica e scelte politiche.

Il tema delle temporalità multiple è una categoria storico-teorica essenziale de Il capitale proprio in relazione alla complessità dei cosiddetti passaggi epocali. Il tempo storico del modo di produzione capitalistico non è lineare e progressivo. Ci troviamo spesso di fronte all’inserzione dei diversi tempi gli uni negli altri, di fronte ad una contemporaneità del non contemporaneo.

Nella nostra storia, nella storia dell’emancipazione dei subalterni, nelle culture che l’hanno attraversata, e che continuano ad attraversarla, ci sono, dunque, molti strumenti per la comprensione dei nessi che legano indissolubilmente le continuità del lungo periodo e le cesure delle forme nuove, anche radicalmente nuove, che caratterizzano le diverse forme di accumulazione.

Le nuove parole, il nuovo linguaggio non possono non avere un rapporto, e non di superficie, con quegli strumenti, altrimenti finirebbero per configurarsi semplicemente come nuova retorica più o meno populista.

Quegli strumenti ci aiutano anche a definire meglio l’area che, con terminologia imprecisa, ho chiamato «nostra parte». La nostra parte è quella che, a partire dalle culture delle teorie critiche del capitalismo, si misura con proposte ed organizzazioni politico-sociali sviluppate in coerenza con tali premesse. Un’area che non è mai stata, e non lo è soprattutto in questo momento, particolarmente omogenea, ma che, sulla suddetta base, dispone di un minimo comun denominatore di pensiero forte.

Proprio per questo la ricerca delle forme possibili di unità può non configurarsi come momento di solo volontarismo astratto, bensì come scelta politicamente strategica e necessaria. Senza questo aspetto di riorganizzazione della cultura e della politica della «nostra parte» è del tutto illusorio pensare che dalla «tabula rasa» il rifiuto del disciplinamento delle forze sociali possa ristrutturarsi nella forma di un’antitesi sistemica.