La modernità si è costruita con la promessa che l’apocalisse, la fine di ogni cosa conosciuta che conduce, allo stesso tempo, alla nascita di un totalmente altro, una forza inarrestabile che l’umanità subisce e non può in nessun modo controllare, non si sarebbe più potuta realizzare. Persino quella grande era delle catastrofi e dei massacri che è stato il Novecento, «Secolo Breve», non ha contraddetto questa promessa ma, se mai, l’ha rinnovata: la «fine del mondo» poteva essere solo responsabilità degli esseri umani, delle loro guerre, delle loro invenzioni ma non più il compimento inevitabile della volontà di un Dio, incoercibile e soverchiante. L’irrompere della questione ecologica e la minaccia del cambiamento climatico, tramite il nuovo paradigma interpretativo dell’«antropocene» non sfugge a questa mentalità: non è la Natura o un Dio che ci minaccia ma salvezza o perdizione sono ancora nelle nostre mani. E noi abbiamo la capacità – questo ci promette una nuova scienza elevata a teologia – di quadrare il cerchio: continuare ad essere moderni, cioè dinamici, opulenti e in continua accumulazione di beni e ricchezze, preservando allo stesso tempo le «condizioni della produzione». Cioè l’ambiente naturale del quale, comunque, facciamo parte.

IN QUESTO SCENARIO l’epifania della catastrofe che solo noi possiamo portare a compimento o evitare è il calore. Tutta la nostra società e le nostre città sono in fase di riprogettazione per lottare contro il calore eccessivo, contro il riscaldamento. Il calore fa paura. Ma non si tratta solo del calore come fenomeno fisico. L’apocalisse come l’inferno inventato dal Medioevo sono luoghi caldi, nel senso che fa caldo ma anche che vi si agitano, nella loro forma più selvaggia, ogni genere di passioni ed emozioni. Sono luoghi dove domina il «fuoco». Come forza distruttrice e come rappresentazione simbolica di ciò che ci «agisce», ci consuma, ci travolge. E ci mette in gioco. Il fuoco, nella cultura cristiana è infatti anche lo Spirito Santo che ci apre alla potenza insondabile di Dio ma anche all’universalità del rapporto con gli altri da noi: «Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi» (Atti degli apostoli, capitolo 2).

Nella sua ambivalenza il fuoco e dunque il calore è la forza da cui promana la civiltà umana che si costruisce forse settecentomila anni fa – sul periodo preciso gli studiosi sono divisi – proprio addomesticando il fuoco e aprendo la strada a quel passaggio dalle «società fredde» (cioè statiche) alle «società calde» (cioè in continuo cambiamento) con il quale il grande antropologo Claude Lévi-Strauss sintetizzava le tappe fondamentali dell’avventura umana. Civiltà e distruzione, fato e libero arbitrio, sicurezza e rischio, apocalisse e post-apocalisse, umano e divino, sono andati dunque sempre di pari passo e il fuoco ha rappresentato tutto ciò. La fine dell’era del fuoco. Cronache di un presente troppo caldo, titolo del nuovo libro di Martín Caparrós (Einaudi, pp. 180, euro 18,00), riflette, appunto, sulla scomparsa progressiva, che si sta consumando, silenziosa, sotto i nostri occhi, del mondo rappresentato dal fuoco.

NEGLI INTERSTIZI del quotidiano raccontati da Caparrós, l’espulsione del fuoco e del calore persino dalle cucine o dal fumare va di pari passo con il progressivo consolidamento di un mondo ovattato, asettico, alla continua ricerca dell’annullamento del pericolo perché preda di ogni sorta di paura. Ma anche della ricerca della distanza tra noi e l’altro, tra le passioni e le loro conseguenze, restituendo un continuo senso di spaesamento, di estraneità, di freddezza, di anonimato mediato da una tecnologia sempre più onnipresente e da un capitale sempre più onnipotente.

La fine dell’era del fuoco è la scomparsa dell’umano e del suo rapporto con la voglia di rischiare, di mettersi in gioco, di bruciare e di essere bruciato dalle fiamme della vita. Per essere precipitato nel grottesco di un mondo che comunque non lo mette al riparo dalla stessa prospettiva dell’Apocalisse. Come ci ricorda la pandemia in corso. Che sapremo superare non sconfiggendola solo sul piano medico ma, secondo Caparrós, respingendo quella paura del mondo e dell’altro, quella ennesima scomparsa del fuoco di cui rischia di costituire, al livello sociale, l’apoteosi. Una nuova «meditazione della vita offesa» di adorniana memoria si impone dunque all’ordine del giorno.