Henri Victor Le Fauconnier, “Autoportrait”, part., 1933, Parigi, Centre Pompidou

 

Il Prestigioso per gli amici dell’avanguardia parigina; con la sua «barba rossa a forma di ventaglio», Henri Victor Le Fauconnier era «uno dei personaggi più sorprendenti di Montparnasse» nella testimonianza di André Warnod.
Ottobre 2014, in un’asta Drouot Paris viene dispersa, insieme all’atelier, una parte della residua collezione del pittore olandese Conrad Kickert, che era stato amico di Le Fauconnier, e lo aveva introdotto, fornendo una base alla sua transizione dal cubismo all’espressionismo, nel vivo della ricerca artistica e del collezionismo progressista d’Olanda, paese che lo adottò negli anni della Grande Guerra. Qui Fauconnier (da ora senza l’articolo «Le», del resto da lui aggiunto nel 1905) divenne un capofila.
Cinque notevoli pezzi della sua prima maniera erano presenti da Drouot, breve fiammata di interesse verso un maestro che circostanze storiche non facili a dirimersi hanno spinto nell’ombra. Due anni prima, 2012, il pittore francese (oggi scomparso) Régis Deparis, originario come Fauconnier del Nord-Pas-de-Calais, si era incaricato, con un piccolo libro partigiano (ed. ateliergaleri), di riscattare la memoria dell’artista, offrendo il tracciato della sua vita sconnessa e di un operare ardimentoso e indipendente, sino all’ultimo fedele alla legge bergsoniana dell’élan vital, che tanto lo aveva influenzato negli anni di formazione.
Per vedere Fauconnier bisogna andare in Olanda. Rara la sua presenza nei musei di Francia (Parigi Pompidou, Brest, Lione…), e già questo è un dato. Nel 1996, all’Aja per la mostra di Vermeer, mi allungai al Gemeentemuseum (Mondrian!), e incrociai per la prima volta l’opera del francese, lì rappresentata al suo meglio: una tonante antologia della stagione iniziale dal ‘momento’ Gauguin al cubismo, compresi numeri canonici come L’Abondance e Le Chasseur, tutto proveniente dal nucleo storico della collezione Kickert, donato nel 1934. Rimasi sconcertato, con persino un moto di ripulsa…
Pittore tormentato, rocambolesco, fuori asse: non si può restare indifferenti. Ma quanto alla fortuna critica, va ripescato da un pozzo nero: uno di quei nomi che nei compendi storico-artistici figurano solo negli elenchi a grappolo stilati per completezza d’informazione. Fauconnier, in particolare, è stato vittima della lettura ‘purista’ del cubismo, da D.-H. Kahnweiler, con il ‘kantiano’ Der Weg zum Kubismus (1920), ai conoscitori del secondo dopoguerra, magistralmente attrezzati, Douglas Cooper, Robert Rosenblum, John Golding… Per tutti costoro ogni esperienza riluttante a farsi inquadrare in un sistema di valori stabilito intorno al ‘sublime’ analitico di Picasso e di Braque non aveva voce in capitolo né diritto d’asilo. Ne fecero le spese più di tutti i «cubisti da Salon», Gleizes, Fauconnier, Metzinger…, coloro che, mentre i due apripista restavano chiusi nel segreto delle proprie ricerche, propalate solo dalle scabre pareti della piccola galleria di Kahnweiler, avevano reso pubblico nelle manifestazioni ufficiali il nuovo linguaggio, seppure in una versione – temperata, ‘mista’ – generatrice di equivoci e controversie.
A partire dagli anni ottanta, con il graduale cedimento del diktat teorico precedente (che però ha conservato il suo peso negli studî meno avvertiti e nella manualistica), cominciano ad allargarsi le maglie e a riemergere figure neglette o misconosciute. La scena cubista si fa più vergine, mossa, variopinta, anche sulla base di una lettura finalmente aperta e sventagliata della critica d’epoca. Le Chroniques d’art e i Peintres cubistes di Apollinaire, per esempio, con l’indeterminatezza lirica delle loro proposizioni militanti, il disorientante oscillare fra le varie opzioni in campo, assumono un nuovo valore di documento, che dice tutta l’abbagliante vitalità della situazione in atto.
Fattosi il quadro critico più aperto e disponibile al cubismo «figurativo», quel complesso di esperienze che rifiutano, più o meno, di ‘concettualizzare’ integralmente, la cui disciplina costruttiva si avvale di residuati del mondo reale, resta la messa in mora di Fauconnier. Perché artisti meno incisivi come Metzinger e Gleizes si sono ‘ricollocati’, mentre lui, quando non ignorato, resta sfuggente e indeterminabile? O almeno così è se si guarda alla critica francese: a parte l’Olanda, unico paese a dedicare a Fauconnier una vera retrospettiva (Haarlem, 1993-’94), va registrato il risveglio di interesse nel mondo anglosassone, per merito dell’americano Daniel Robbins e dell’inglese David Cottington, con la loro lettura caleidoscopica del cubismo.
Dunque, un caso di ostracismo francese verso un francese? Nel 1912 indica una prima frattura l’assenza di Fauconnier in due occasioni cruciali, la mostra della Section d’Or (larghissima: tutto quel che era maturato al di fuori dell’ortodossia, ma c’era anche Juan Gris) e l’opuscolo Du Cubism, primo, parziale tentativo, a firma Gleizes e Metzinger, di sistemazione teorica delle ricerche. Personalità fortemente implicata nelle dinamiche sociali (il gusto dei Salons, l’atelier di rue Visconti centro di irradiazione), Fauconnier, indomito, pensa anche di potersi ‘sottrarre’, e già in quel fatidico ’12, quando diventa insegnante all’Academie de la Palette e presenta all’Automn Les Montagnards attaqués par des ours (oggi a Rhode Island) – quadro-scandalo, il suo più cubista, sotto l’influenza di Léger – appare «in uscita» dalla scena parigina.
L’anno dopo Apollinaire, nei Peintres cubistes, senza dedicargli un capitolo monografico, fa di Fauconnier il campione di quel che definisce «cubismo fisico», vale a dire «l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi la maggior parte dalla realtà di visione». La formula può adattarsi idem a Metzinger e a Gleizes, che invece sono spinti da Apollinaire tra i rappresentanti del «cubismo scientifico» accanto a Picasso e Braque. Ma non è l’aspirazione teorica e casistica, troppo coinvolta nei giochi di posizione, a interessare in Apollinaire, piuttosto il suo reagire di pelle, ‘dilettantesco’, dinanzi alle opere. Nei dispacci dai Salons il poeta di Zone segue con attenzione gli sviluppi di Fauconnier, che nel 1912, con Le Chasseur, meriterebbe la palma per «novità», «potenza», «varietà del colore», «se il suo quadro appartenesse a un’idea più generale». Osservazione giustificata dall’ingombro del soggetto, intriso di autobiografia: adolescente, Henri accompagnava lo zio cacciatore nelle torbiere di Contes, presso Montreuil-sur-Mer, gli stivali nel fango, portando il carniere; nei Montagnards – altro esempio – è pittoricamente trasfigurata la bocca della caverna segreta, miniera abbandonata, in cui l’artista, insieme alla compagna Maroussia, andava in escursione durante i soggiorni ad Annecy; nei pressi, la foresta di Doussard: qui si aggirava, secondo la leggenda, il fantasma dell’orso bruno che ispirò il suo dipinto (notizie tratte dal libro di Deparis, recatosi nei luoghi).
Insomma, il marcato rilievo esistenziale – estraneo all’‘impersonalità’ del cubismo di stretta osservanza – e la «potenza», che Apollinaire giudica a detrimento della «bellezza», proiettano Fauconnier, già nell’anteguerra, verso un surplus di espressione, tendenza che avrà compimento nella stagione olandese. Si può parlare di ‘travestimenti’ cubisti, di un uso strumentale ed estraneo della sfaccettatura, dello smembramento d’immagine compresa la simultaneità di visione, dello stesso nuagisme con cui Delaunay e Léger spezzavano le forme solide e la profondità spaziale ricorrendo a toppe bianche simili a nuvole.
Questa diversione dall’arte francese – arte che solo tra le due guerre conoscerà una fiammata espressionista, abbastanza ineffettuale e parzialmente influenzata (Marcel Gromaire, Yves Alix) dallo stesso Fauconnier – è senza dubbio alla base del discredito in cui cadde il pittore. Essa viene peraltro a coincidere con una diversione civile: Henri, riformato, non solo evitò le trincee, così spietate per molti artisti del suo paese, ma, mentre impazzava la retorica della Nazione, riparò nella neutrale Olanda. Quando torna a Parigi, nella tarda primavera del 1920, il quadro è cambiato del tutto e lui si ritrova sbalestrato, nel completo isolamento, e tale rimarrà – non senza aver prodotto un buon numero di dipinti retroversi, sempre animati dai fuochi del temperamento (gli spiritati autoritratti) – fino alla morte tristissima nell’atelier di rue Hallé, dove scoprono il corpo, chissà a quanti giorni dal decesso, nel gennaio del ’46.
Nato nel 1881 a Hesdin, Alta Francia, da una famiglia facoltosa che viveva in un settecentesco hôtel particulier, Henri, formatosi all’Académie Julien fraternizzando con La Fresnaye e Segonzac, si era orientato nel 1907 verso il fauvismo, di cui dava una versione energica nella Petite Écolière oggi all’Ermitage. Ma subito si sintonizza con le nuove istanze costruttive, riattivando il tratto chiuso e rugoso di Gauguin entro cui stringe, in tinte eleganti e smorzate tra verde e terra, con effetto di grandiosità ‘megalitica’, i paesaggi bretoni di Ploumanach, villaggio d’affezione, a nord, nella Costa di Granito Rosa. Su questa linea, ma con «un sapore art nouveau» (Golding), si situa, nel 1909, il Portrait de Pierre-Jean Jouve, che fu decisivo per Gleizes e documenta la vicinanza di Fauconnier all’Abbaye de Créteil, l’utopico cenacolo di artisti e scrittori ispirato a Rabelais e impregnato di pensiero bergsoniano (fra i partecipanti Jules Romains, che introdurrà, nel 1927, la prima monografia del pittore). Nel 1910, ecco, solenni, geometrizzati spigolosamente secondo il modulo cézanniano del primo Léger, la Femme à l’éventail e il ritratto del poeta Paul Castiaux.
Siamo giunti così alla stagione dei «cubisti da Salon», che si inaugura agli Indépendants, nella primavera 1911, con la celebre sala 41, prima mostra di gruppo, benedetta da Apollinaire, studiosamente allestita da Fauconnier, di cui figura, accanto al Castiaux, L’Abondance. Modella per questa allegoria parnassiana dalle membra ciclopiche, la pittrice russa Maroussia Barannikoff, che Henri sposerà a Mosca nel febbraio 1912. L’aveva conosciuta sette anni prima: un legame intenso, spezzato, nel luglio 1921, dall’internamento di lei. Il «petit ours de Sibérie», così lo appellava la sposa, rimane solo, in altro modo internato: unico conforto, la pittura, che destinava… a chi? Il solo a sostenerlo economicamente fu l’industriale olandese Frans Sandbergen, con acquisti frequenti, a cadenza.
Favorito dai legami di Maroussia, collezionato da Sergej Šchukin, Fauconnier, sin dal 1908, era conosciuto in Russia, dove suscitò interesse in alcuni circoli dell’avanguardia. Quanto alla Germania, l’almanacco del Blaue Reiter, nel maggio 1912, faceva il suo nome, accanto a quelli di Matisse, Picasso, Delaunay, per dire i protagonisti francesi delle ricerche più avanzate, e riproduceva, con il commento di Kandinsky, L’Abondance e Le Lac, «un tragico sovraccarico di “masse”» e «un poema chiaro e limpido». In quello stesso anno, autunno, Klee va in visita all’atelier parigino di rue Notre-Dame de Champs… Non è sorprendente che un maestro talmente vivo per i contemporanei sia oggi out, e secondo modalità che sembrano esulare perfino dalle fisiologiche dinamiche delle metamorfosi del gusto?
È in Olanda, pur nelle difficoltà della situazione bellica, che Fauconnier trovò l’ambiente più propizio. Ambiente con cui si era già familiarizzato a Montparnasse all’inizio degli anni dieci, attirando nella sua orbita una serie di pittori olandesi (Alma, Schelfhout, anche Gestel) che avvertivano nel cubismo da lui professato una ‘parlata’ nordica a loro conforme. Fra questi, soprattutto, Kickert, intenzionato a costruire una specie di fronte ideologico per spostare verso l’espressionismo nord-europeo l’asse egemonico. Ricchissimo, con relazioni importanti, egli, dal 1912, diventò il motore del Moderne Kustkring di Amsterdam, manifestazione che introdusse il cubismo in Olanda e mantenne acceso, durante la guerra, il faro dell’arte moderna. Nell’edizione del ’13 Fauconnier è il mattatore, con ben trentatre opere (Picasso dodici). Pubblica lo scritto-manifesto La Sensibilité Moderne et le Tableau, con una lucidità teorica che spiega il suo carisma.
Nel periodo olandese Henri ‘agisce’ prepotentemente: è all’origine della scuola di Bergen, incide sulla svolta patetica di Jan Sluyters, crea il movimento Het Signaal, evolve verso un linguaggio tenebroso, mistico, respingente, a colpi larghi e materia densa, sporca, che denuncia l’inquietudine della guerra. Capo d’opera, il grande trittico Le Songe du Vagabond, 1917-’18.
Fauconnier risale, in questo diapason, alle origini di van Gogh, al periodo nero di Nuenen: una specie di nemesi storica, di drammatico à rebours, che egli suggella, prima del rientro a Parigi, con l’acquisto in asta della Contadina dallo scialle verde muschio, oggi visibile, in tutto il vigore acido della sua disperazione sociale, al museo di Lione.