«Siamo pronti per passare dalle armi a un movimento politico aperto». Così, all’Avana, si è espresso il rappresentante delle Farc, Ivan Marquez. Dal 2012, la guerriglia marxista è impegnata nei tavoli di dialogo con il governo colombiano di Manuel Santos per portare a soluzione il conflitto armato che dura da oltre cinquant’anni. A garanzia del percorso, oltre al Venezuela che lo ha messo in moto, c’è la Norvegia che ha ospitato i primi incontri. A sostenerlo, oltre alla sinistra e ai movimenti colombiani, che hanno rivotato per questo il neoliberista Santos, c’è l’America latina progressista. E c’è il placet di Obama.

Giovedì si è concluso il 41mo ciclo dei dialoghi, che riprenderanno il 28 settembre. Attualmente, le parti discutono il punto della riparazione delle vittime, mentre alcune sottocommissioni lavorano per porre un quadro credibile che riduca il conflitto. Per questo, le Farc hanno chiesto all’Onu e all’Università nazionale di convocare un convegno per discutere con la società il tema finale dei punti in agenda, denominato appunto “fine del conflitto”: «La pace – dicono le Farc – è una questione che riguarda l’intera società, che richiede la partecipazione di tutti, senza distinzioni, e comprende anche le altre organizzazioni guerrigliere». Con l’Eln, l’altra formazione armata guevarista, altrettanto longeva, sono aperti negoziati paralleli che l’Ecuador si è già detto disponibile ad ospitare. L’annuncio che, anche in quel campo, «potrebbero esserci sviluppi importanti» è stato dato dal leader dell’Eln, Gabino.

Marquez ha ribadito che, adesso, diventa più «urgente» fare chiarezza sul fenomeno del paramilitarismo e arrivare alla sua definitiva disarticolazione: «perché se si continua con la guerra sporca, il giorno dopo l’accordo diventerebbe una menzogna». Nonostante la tregua unilaterale dichiarata dalle Farc e la recente (e apparente) disponibilità del governo a cessare a sua volta le ostilità, i paramilitari, con la complicità dell’esercito, continuano a mietere vittime: sia tra la guerriglia che fra i difensori dei diritti umani. Nel 2015 sono già 69 gli attivisti uccisi. E, sul tavolo delle trattative ci sono anche i prigionieri politici, circa 600, detenuti anche negli Stati uniti e in condizioni durissime.

Ma, intanto, il padrino del paramilitarismo, l’ex presidente Alvaro Uribe, ora senatore del Centro Democratico, non ha intenzione di mollare e sta facendo fuoco e fiamme contro gli accordi di pace. La sua formazione è l’unica voce dissonante nell’arco dei partiti politici, disposti a dare il proprio consenso alla riforma costituzionale con la quale il governo vorrebbe aprire la strada giuridica agli accordi di pace, una volta che si arrivi alla firma. Il progetto prevede la formazione di una commissione speciale del Congresso che proponga un quadro di leggi necessario alla soluzione politica. Un dispositivo che consenta al presidente di accelerare l’esecuzione di altri punti su cui l’accordo è già stato realizzato. Il governo lo presenterà al Congresso martedì. Allo stato attuale, il progetto non prevede la partecipazione della guerriglia nella commissione legislativa speciale, però si è stabilito che, se in seguito si verificano le condizioni, il progetto di legge potrà essere modificato dopo una ulteriore consultazione fra le parti, possibile per le prerogative che il progetto lascia aperte al presidente.

Le Farc avrebbero voluto tutt’altro cammino: quello di un’assemblea costituente, che resta un obiettivo di forte mobilitazione popolare. Intanto, 11 leader del Congreso de los Pueblos, detenuti ingiustamente da due mesi con l’accusa di terrorismo sono stati liberati. Ma la lunga mano giudiziaria di Uribe, il magistrato Ordoñez, continua a perseguire i militanti. Ora minaccia l’ex senatrice Piedad Cordoba, per la solidarietà espressa al Venezuela di Nicolas Maduro nel conflitto contro i paramilitari colombiani che imperversano alla frontiera. Santos e Maduro si incontrano domani insieme alla Unasur, organismo mediatore fra le parti. Intanto, un giornalista della tv venezuelana Telesur è stato obbligato ad abbandonare la Colombia – paese altamente a rischio per chi fa informazione – a seguito di pesanti minacce. In questi giorni, dei sicari hanno ucciso un’altra cronista colombiana, che indagava sui legami tra mafia e politica.