Tra le donne argentine contrarie alla legge sull’aborto libero e gratuito, ce n’è una che spicca su tutte: Gabriela Michetti, una glaciale signora costretta su una sedia a rotelle da un incidente, fedelissima di Mauricio Macri e da lui scelta come vice presidente della Repubblica. Dopo aver tentato di ritardare la discussione del provvedimento alla Camera Alta, Michetti si è affrettata ad affermare con garbo mondano che l’interruzione di gravidanza andrebbe proibita anche in caso di stupro, perché il bambino «puoi darlo in adozione, vedere cosa ti succede durante la gravidanza, andare dallo psicologo, che ne so». Parole arrivate fino a Margaret Atwood, che le ha risposto: «In questo momento, le donne argentine lottano per i loro diritti e le loro vite. Se l’Irlanda ha potuto farlo, anche l’Argentina può».
E quando la vice presidente ha insistito sulla difesa di «ogni tappa della vita», aggiungendo con sufficienza di non conoscere i libri della scrittrice canadese, quest’ultima ha ribattuto, in un’intervista pubblicata il dieci luglio da un quotidiano di Santa Fé: «Nessuno sta costringendo le donne ad abortire. E nessuno dovrebbe costringerle a subire un parto. Se l’Argentina vuole costringerle a partorire, chiami almeno la costrizione per quello che è. È schiavitù: è rivendicare il possesso e il controllo del corpo di un’altra persona, e ricavarne un profitto».

CHE SCHIAVITÙ sia la parola giusta lo fa pensare, in effetti, il programma «Lo Stato ti sta accanto e provvede» presentato in questi giorni dal senatore di Cambiemos Federico Pinedo, secondo il quale la madre riluttante riceverebbe un aiuto economico durante l’attesa, per poi consegnare il bambino alle istituzioni. Ma, per non pesare sul bilancio statale, potrebbero essere «terzi non identificati a farsi carico del controllo, dell’assistenza medica, dell’alloggio e del sostentamento delle donne incinte» e della sistemazione dei neonati.
In pratica, una fruttuosa compravendita di corpi femminili e dei loro «prodotti», a fronte di uno spreco costoso come l’aborto. E anche la Cgt peronista dichiara di essere preoccupata per il costo delle «pratiche abortive», guadagnandosi l’annuncio di un pañuelazo davanti alle sedi sindacali: armate di fazzoletti verdi, le donne faranno presente che l’onere sarà minore di quello legato alle morti o ai problemi di salute causati dall’aborto clandestino, e che quello della Cgt è un messaggio politico e ideologico (non a caso uno dei suoi dirigenti, Héctor Daer, definisce l’aborto «cultura dello scarto»).

IN VISTA DELL’8 AGOSTO, giorno in cui la legge verrà votata, il clima si va scaldando, mentre la cosiddetta «onda verde» si fa sempre più impaziente e aumentano l’aggressività dei pro-vida e le marce di compunte bimbette delle scuole cattoliche, affogate in fazzolettoni celesti. Le sostenitrici della legge, però, sono troppe per oscurarle o farle tacere: una valanga di donne di ogni età, dalle anziane pioniere (nel corso del XX secolo, la questione è stata sottoposta ai legislatori già sei volte) fino a las pibas, un mare di ragazzine orgogliose e combattive.
Tra conflitto e attesa, non poteva esserci momento migliore per inaugurare una mostra come Celulas madres. La prensa feminista en los primeros años de la democracia, da visitare fino al 29 luglio nel Centro culturale Haroldo Conti di Buenos Aires, dove sono esposti riviste, manifesti, volantini, fotografie, audiovisivi, fanzine e altro ancora, che danno conto di un panorama ricco e diversificato, appena riemerso dal silenzio e dalla clandestinità della dittatura.
Un’immensa parete ospita gli ingrandimenti di tutte le copertine delle pubblicazioni femministe di allora, un armadio accoglie parte dell’imponente archivio che Sara Torres ha donato al Programa de Memorias feministas y Sexogenéricas, Sexo y Revolución, mentre modesti opuscoli, paginette sciolte, foto in bianco e nero, pubblicazioni dalla grafica audace, supplementi di quotidiani o settimanali, arrivano dalla Biblioteca Nazionale o dal Centro de Documentación e Investigación de la Cultura de Izquierdas. Tra le sale si aggirano quattro «riviste in movimento» ispirate a quelle che osavano di più in fatto di immagini e veste grafica, realizzate da Marina de Caro del collettivo Nosotras proponemos e sostenute da fanciulle-sandwich; a creare gli «altari laici» di Siempre Vivas, dedicati a quelle che non ci sono più e carichi di immagini e oggetti-feticcio, è stata invece Marina Scafati, un’artista giovane e già famosa, mentre spezzoni di programmi radiofonici e televisivi d’epoca compongono un collage audiovisivo quanto mai curioso.

L’IDEATRICE DELLA MOSTRA è Maria Moreno, grande giornalista e crónista sofisticata (nonché autrice di uno dei libri più belli e complessi usciti nel 2017, Black out, doloroso diario intimo, biografia generazionale, ritratto dell’Argentina intellettuale pre e post dittatura, pubblicato da Literatura Random House) che ha scelto e organizzato il materiale proveniente dai vari archivi e centri di ricerca in cui è tutt’ora disperso. Il risultato è una mostra da vivere e non solo da guardare, dove passato e presente si confondono, annunciano il futuro, tessono collegamenti e stabiliscono multiple e preziose genealogie in cui le giovani donne possono specchiarsi, seguendo le tracce di temi e argomenti, ritrovando espressioni e gesti nelle vecchie foto in bianco e nero (spesso firmate da nomi famosi come Sara Facio o Alicia D’amico), anche se le differenze sono numerose quanto le somiglianze.
Alfonsina (vicina ai linguaggi dell’avanguardia, attenta alla psicoanalisi e diretta proprio da Maria Moreno), Persona (creata nel ’74, chiusa dalla dittatura e poi risorta negli anni ’80; celebre è la foto della sua fondatrice, María Elena Oddone, che nel 1984 sale le scale del Congresso reggendo un cartello con su scritto «No alla maternità, Sì al piacere»), Bruja (nata dal gruppo Atem 25 Noviembre, dalla forte connotazione di sinistra), Feminaria (legata alla Libreria delle Donne di Buenos Aires), Unidas (prodotta a Santa Fé dall’omonimo gruppo di donne marxiste), Cuadernos de existencia lesbiana (diretta da Ilse Fuskova e capace di anticipare i tempi con le sue paginette frammentate e provocatorie), e molte altre pubblicazioni, quasi sempre povere ed effimere, erano la voce delle esperienze di gruppi minoritari e spiccatamente eterogenei, immersi in accesi dibattiti sulle relazioni interpersonali, sulla sessualità e il corpo, sulla violenza e l’aborto, sul lavoro domestico e la subalternità in politica.

SPERIMENTANDO separatismo e autocoscienza, avviando un discorso sul genere mai tentato prima, rifacendosi a una necessaria «argentinità» e collegandola a quanto arrivava dall’estero, incrociando ogni tema con quello dei diritti umani, collegandosi a movimenti di dissidenza sessuale come il Frente de Liberación Homosexual o il Grupo Autogestivo de Lesbianas, le femministe di allora sono state davvero cellule madri che, nonostante la pronta istituzionalizzazione offerta dal governo Alfonsín (quella che le militanti di Unidas chiamavano ONGeización), il ritiro nell’Università o nei partiti tradizionali, gli allettamenti del neoliberismo menemista, assistono oggi alla nascita e all’evoluzione di un femminismo di massa cresciuto nel brodo di coltura dei social media e che si discosta non poco dalla tradizione collettiva di riflessione e militanza dei primi anni ’80, ma al quale hanno trasmesso almeno una parte del proprio Dna.
Nella mostra, a testimoniare un cambiamento maturato parallelamente e che allora era in gestazione, sono incluse le figure di due compagne di strada: nella sezione Siempre Vivas troviamo Néstor Perlongher, trozkista, grande poeta, antropologo e saggista, principale esponente del Flh, processato e incarcerato nel ’76, che su Alfonsina come altrove si firmava Rosa, o meglio che per tutti era Rosa. E accanto a lui, in virtù di una licenza cronologica, ecco Lohana Berkins, la travestiarca madre e protettrice di tutte le travas, scomparsa due anni fa e presente grazie a un colorato montaggio in veste di maga.

PROSTITUTA A TREDICI ANNI, laureata all’università, candidata al Congresso, attivista che ha dato un contribuito determinante alla ley de genero (promulgata, oltre quella sul matrimonio egualitario, dal governo Kirchner), Lohana, in cui confluivano tutte le lotte, compresa quella per l’aborto, non ha fatto in tempo a vedere, il mese scorso, l’assassino della sua amica Diana Sacayan condannato all’ergastolo per delitto d’odio e travesticidio. Ma c’è stato chi, in nome suo e con le sue parole, alla lettura del verdetto ha gridato: «Furia Travesti siempre!».