La tensione si tagliava a fette ieri mattina a Sheikh Jarrah. Per tutta la notte erano andate avanti le discussioni tra le 28 famiglie minacciate di espulsione dalle case in cui vivono dagli anni ’50, costruite dalle Nazioni unite e autorizzate dalle autorità giordane, per far posto a coloni israeliani. Sul tavolo c’era la proposta fatta nelle scorse settimane dalla Corte suprema israeliana. Una soluzione in apparenza migliore di altre presentate in passato: i palestinesi possono rimanere nelle abitazioni da inquilini protetti per 15 anni ma la proprietà di terreni e edifici sarà assegnata alla Nahalat Shimon, una fondazione dei coloni. Qualche famiglia, si vociferava ieri, ha tentennato generando nervosismo nelle altre famiglie. Anche per questo si è tenuta a distanza dai giornalisti Muna Al Kurd la 23enne palestinese che assieme al fratello Mohammed – entrambi sono stati nominati dal Time tra le 100 personalità più influenti del 2021 – aveva fatto da portavoce delle famiglie durante le proteste a Sheikh Jarrah della scorsa primavera represse dalla polizia israeliana. Poi nel primo pomeriggio, appena sono rientrati gli avvocati dall’incontro con i giudici della Corte suprema, è stata comunicata la decisione unanime delle 28 famiglie: un secco rifiuto, sostenuto anche dall’Anp a Ramallah, da Hamas a Gaza e da una folta schiera di attivisti palestinesi all’estero

«Abbiamo rifiutato la proposta della Corte Suprema israeliana, che ci avrebbe resi inquilini protetti alla mercé delle organizzazioni di coloni», hanno scritto le famiglie in un comunicato. «Siamo fermi nel nostro rifiuto di scendere a compromessi sui nostri diritti nonostante la mancanza di garanzie istituzionali a tutela della nostra presenza come palestinesi nella Gerusalemme occupata», spiegano più avanti nel testo. E per smentire le voci su sette famiglie pronte al compromesso, Muna al Kurd ha dichiarato che il rifiuto era deciso da giorni. «Questa è la nostra decisione – ha spiegato – l’abbiamo presa molto tempo fa, non oggi. La gente di Sheikh Jarrah ha dimostrato la sua ferma posizione». Suo padre Nabil ha ribadito che la sua e le altre famiglie resisteranno fino all’ultimo ai coloni e a tutti quelli che vogliono cacciarle via da Sheikh Jarrah. E quel pericolo da ieri si è fatto concreto anche se non imminente perché sul caso di Sheikh Jarrah c’è ancora una significativa attenzione internazionale e una ampia mobilitazione palestinese. Ma presto o tardi i giudici della Corte suprema torneranno a farsi sentire e nessuno dubita che la sentenza futura sarà favorevole ai coloni.

All’inizio di quest’anno, la corte distrettuale di Gerusalemme si era già pronunciata contro le famiglie palestinesi. Queste hanno risposto presentando ricorso alla Corte Suprema israeliana che ha ripetutamente rinviato il suo giudizio. Le famiglie coinvolte, sfollate durante la guerra del 1948, vivono a Sheikh Jarrah dal 1956. La Nahalat Shimon appellandosi a una legge che riconosce ai cittadini israeliani il diritto di rivendicare le proprietà ebraiche esistenti prima del 1948 nel settore arabo di Gerusalemme – tale diritto non è riconosciuto ai palestinesi per i loro beni nel settore ebraico della città – sostiene di aver acquisito dai vecchi proprietari i terreni dove ora ci sono le abitazioni palestinesi.

Intanto, i giudici della Corte suprema israeliana, con una sentenza che suona come un avvertimento alle 28 famiglie, domenica hanno sentenziato la confisca a Sheikh Jarrah di terreni di proprietà palestinese che saranno destinati a «uso pubblico», in realtà alla costruzione di un hotel e all’allestimento di un parco. La sentenza si fonda su una legge israeliana che secondo il diritto internazionale non è applicabile a Gerusalemme Est, territorio non israeliano e occupato militarmente nel 1967. Questa confisca ha fatto impennare la tensione della zona araba della città già alta in questi giorni a causa dei lavori avviati dalle autorità israeliane per spianare un terreno a sud della città vecchia adiacente a un antico cimitero islamico, Yusufiah. In quella zona vedrà la luce un «Sentiero biblico». I palestinesi denunciano danni a varie tombe nonostante l’assicurazione che non saranno toccati i «luoghi di sepoltura».