Il faticoso travaglio che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale ha dato nuovo impulso alla proposta di elezione diretta del presidente della Repubblica, che fin dall’immediato dopoguerra venne avanzata dall’ex capogabinetto del MinCulPop di Salò, Giorgio Almirante, frattanto divenuto segretario del Movimento Sociale Italiano, erede diretto del Partito Nazionale Fascista.

Non sorprende, dunque, che a riportare in auge questa proposta sia oggi Giorgia Meloni, leader di un partito che rivendica la diretta discendenza dal neofascismo italiano come si evince dalla fiamma che, nel simbolo di Fratelli d’Italia come già in quello del Movimento di Almirante, arde dalla bara di Benito Mussolini. “Se fossero stati gli italiani ad eleggere il PdR” si legge in un tweet di Giorgia Meloni “lo avrebbero fatto in un giorno”.
Bizzarra argomentazione a favore di una repubblica presidenziale. Ma anche falsa.

Il nuovo presidente è stato eletto dai grandi elettori (deputati, senatori e rappresentanti delle regioni) dopo otto votazioni in sei giorni. Negli Usa la campagna elettorale dura anche un anno, tanto passa dalle elezioni primarie per la scelta dei candidati all’elezione del presidente da parte dei delegati dei diversi collegi. In Francia, dove è in vigore un sistema semi-presidenziale, gli elettori votano direttamente il presidente ma dopo una campagna elettorale che dura mesi e dove è possibile un secondo turno di ballottaggio a due settimane dal primo.

Persino a Mussolini, in altre circostanze, non bastò un giorno per essere incaricato dal re di formare un nuovo esecutivo. Il 26 ottobre 1922 iniziava da Perugia la marcia su Roma, due giorni dopo si dimetteva il primo ministro in carica, Luigi Facta, e ci vollero ancora due giorni perché il Savoia cedesse e affidasse al duce il governo.

Se non conoscessimo le qualità del leader di Italia Viva potrebbe, piuttosto, sorprenderci la dichiarazione fatta da Matteo Renzi a favore dell’elezione diretta del Capo dello Stato. Nella riforma costituzionale, da lui voluta e poi bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, dunque 5 anni fa, l’elezione del Presidente della Repubblica restava, infatti, affidata al Parlamento riunito in seduta comune, anche se senza la partecipazione di delegati regionali. Ma l’uomo è volubile come il tempo, si sa. Se, tuttavia, l’effimero pensiero politico dell’uomo che aspira a divenire l’ago della bilancia della politica italiana dovesse saldarsi con la testarda coerenza neofascista di Giorgia Meloni, non pochi danni potrebbero venire al già fragile sistema democratico italiano.

Negli anni abbiamo assistito a una progressiva enfatizzazione dei poteri del Capo dello Stato; si è detto, ed è certamente vero, che questo è stato reso possibile dalla debolezza della politica e dei partiti. Ci si dimentica, però, che la legge 81 del 25 marzo 1993, che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco e dei presidenti di provincia, è stata una potente spallata ai partiti e al sistema della rappresentanza di cui erano protagonisti.
Con il nuovo sistema il sindaco e la sua maggioranza, sempre più liste civiche e comitati elettorali costituiti alla bisogna, non necessitano più di intermediazione nel rapporto con i cittadini. Nei consigli comunali si è spento il dibattito e la lotta politica sconta un orizzonte che, salvo imprevisti, è unicamente quello del prossimo turno elettorale.

Le sedi dei partiti sono sparite in tutti i piccoli centri, la qualità del personale politico-amministrativo si è fatta sempre più mediocre. Il processo di disintermediazione della politica dai partiti, iniziato negli anni ’90, sarebbe ulteriormente accelerato da una riforma per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Esattamente l’opposto di quel che necessita la democrazia italiana: rilanciare il ruolo dei partiti, rafforzare gli organi intermedi tra cittadini e istituzioni, selezionare dal basso le persone che vogliano impegnarsi nell’organizzazione e nella direzione della cosa pubblica.