In Germania sia le agenzie governative che le organizzazioni imprenditoriali sono molto favorevoli a ciò che chiamano «Industria 4.0», ma anche i sindacati concordano con questa visione. La digitalizzazione della produzione potrebbe ridurre i prezzi, aumentare la domanda e creare occupazione, in particolare nelle aziende produttrici di automazione. Pertanto, anche il sindacato dei metalmeccanici è attivamente coinvolto in un’alleanza tra governo e associazioni di imprese sulla «Piattaforma Industria 4.0».
Tuttavia, un’indagine condotta dalla Confederazione dei sindacati tedeschi (DGB) indica che due terzi dei lavoratori dicono di non avere alcuna influenza su come la tecnologia digitale viene impiegata sul proprio posto di lavoro e la metà degli intervistati si lamenta di un aumento del carico di lavoro a causa della digitalizzazione. Nonostante ciò, il sindacato dei metalmeccanici è preoccupato dall’idea di poter bloccare questi processi e rinunciare così ai benefici derivanti dalla digitalizzazione – quali un miglioramento qualitativo delle posizioni lavorative, una migliore cooperazione e partecipazione tra gruppi di dipendenti, la sostituzione di mansioni molto faticose e poco attraenti, nonché nuove opportunità di fornire ai lavoratori una più completa formazione e dunque maggiori possibilità di sperimentare una mobilità «verso l’alto». Vi è una condivisione di vedute sul fatto che le imprese tedesche possano essere le avanguardie del processo di digitalizzazione e sul fatto che le perdite previste in termini di occupati – fino ad un 7% dei 43 milioni di posti di lavoro al momento esistenti – potrebbero essere compensate, almeno in gran parte, dai nuovi posti di lavoro che verranno creati aumentando le esportazioni (anche se ciò significa esportare la disoccupazione all’estero).

NELL’ATTUALE FASE iniziale di sviluppo di queste nuove tecnologie gli effetti quantitativi della digitalizzazione sul mercato del lavoro sono difficili da stimare ed i numeri disponibili finora sono spaventosi. Secondo un sondaggio lanciato nel gennaio 2016 dal World Economic Forum, i robot, l’automazione e l’intelligenza artificiale potrebbero costare 5 milioni di posti di lavoro nelle grandi aziende delle 15 principali economie del pianeta. La maggior parte dei posti di lavoro che si trovano in pericolo sono i lavori d’ufficio ed in ambito amministrativo, ma anche le mansioni a bassa e alta qualificazione nel settore manifatturiero e delle costruzioni potrebbero essere profondamente colpite. Tre tipi di sfide dovrebbero catturare la nostra attenzione: in primo luogo, quelle tecnologiche; in secondo luogo, le conseguenze sociali di un’ulteriore sostituzione di lavoro umano da parte di macchine e algoritmi; e, in terzo luogo, le implicazioni ecologiche (e geopolitiche) dei sistemi produttivi digitali. Tutti i lavori di routine, inclusi i processi standardizzabili e anonimi – e i servizi digitali in particolare – diverranno soggetti a delocalizzazioni (off-shoring) e ad ulteriori pressioni al fine di aumentarne l’efficienza, mentre le attività che comportano un’interazione umana diretta saranno sempre più apprezzate. Tutto ciò comporterà anche il fatto che i servizi digitali verranno perlopiù «spezzettati» in parti sempre più ridotte cosicché il relativo lavoro potrà essere delegato ad una moltitudine di «operai virtuali». Andrà pertanto ad espandersi il cosiddetto crowd-working e il lavoro per mezzo di piattaforme cloud.

LE RETRIBUZIONI dei lavoratori delle piattaforme cloud o dei cosiddetti click-workers – i quali svolgono le proprie prestazioni a cottimo – sono spesso molto basse e corrisposte in modo irregolare, mentre i lavoratori sono invisibili e isolati. Il futuro mondo del lavoro digitale rispecchia quel «sistema di lavoro su commissione» tipico delle prime fasi del capitalismo.
In questo contesto, l’irregolarità, la flessibilità, l’incertezza, l’imprevedibilità e la presenza di altri svariati tipi di «rischio» saranno la nuova «condizione normale» del mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale. Non importa se i lavoratori verranno classificati come «precari», come «informali», «atipici» o come lavoratori per conto proprio.
Sulla piazza del mercato globale essi saranno condannati ad un’occupazione instabile, a salari o redditi sempre più bassi e a condizioni di lavoro ancora più pericolose; non potranno godere, se non sporadicamente, delle misure di assistenza e previdenza sociale e spesso sarà loro negata la possibilità di prender parte ad associazioni e sindacati. Coloro che ancora svolgeranno il proprio lavoro in fabbriche ed uffici saranno controllati da applicazioni e algoritmi, dove quest’ultimi saranno l’equivalente della vecchia catena di montaggio – ma molto più difficili da interrompere.

QUELLA IN CUI CI TROVIAMO è una fase della globalizzazione di stampo oligarchico, dove solo le nazioni economicamente più forti ed il 20% più ricco della popolazione, ed in particolare l’1%, possono avere aspettative effettivamente positive, dal momento che neppure le politiche di stampo liberale a sostegno del welfare trovano più spazio sull’agenda politica. Di conseguenza, vediamo la dissoluzione delle classi e della coscienza di classe.
Le riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare promosse dalla coalizione rosso-verde sotto la guida del cancelliere Gerhard Schröder nei primi anni 2000 hanno spinto milioni di lavoratori in occupazioni con bassi salari e scarse tutele, mentre al tempo stesso hanno aumentato la concorrenza tra questi ultimi. Di conseguenza abbiamo oggi in Germania non solo un’industria piuttosto competitiva ma anche uno dei più grandi bacini in Europa di forza lavoro con basso salario.

LA DISUGUAGLIANZA, la sottoccupazione e la povertà sono in aumento: circa 12,5 degli 80 milioni di abitanti della Germania si trovano al momento sotto la soglia di povertà relativa, ossia guadagnano meno del 60% del reddito mediano. Anziani, genitori single e ancor più bambini sono le categorie di persone per le quali è più alta la probabilità di scivolare sotto tale soglia di povertà. Una tendenza particolarmente inquietante, infine, riguarda il crescente numero di working poors, ossia di «lavoratori poveri».
Anche se i costi della transizione verso «Industria 4.0» sono considerati tali da poter essere gestiti senza grossi problemi perlomeno da parte delle più grosse aziende, il suo futuro dipenderà molto da come i prezzi dei metalli e di tutti i materiali necessari alla produzione dei prodotti tecnologici, nonché del petrolio, si comporteranno quando le economie di tutto il mondo investiranno in modo sempre più massiccio nella produzione di energia rinnovabile; nella mobilità elettrica; nella produzione digitale; mentre i consumatori continueranno ad acquistare ogni tipo di dispositivo mobile (come smartphone e tablet); i governi proseguiranno ad investire nel comparto militare (con tanto di acquisto di moderni droni e simili).

NON VA DIMENTICATO infatti che tutte queste nuove tecnologie, e dunque le industrie che le producono, dipendono in modo cruciale dalla disponibilità di petrolio e di «metalli rari» come il rame, il nichel, l’argento, l’uranio, il piombo e in particolare dalle cosiddette «terre rare» come l’indio, il gallio, il germanio, il litio e molti altri.
Alcuni di questi (per esempio il rame) sono già esauriti e non è affatto scontata la possibilità di trovare nuove miniere da cui attingere. La produzione potrebbe ridursi, e diverrà sempre più concentrata nei siti produttivi esistenti. I prezzi dei metalli rari e altamente richiesti sperimenteranno un sostanziale aumento nel prossimo futuro. In queste circostanze, si attingerà sempre più dalle miniere con una concentrazione via via più bassa dei suddetti metalli rari. Tuttavia, quanto minore è la concentrazione, maggiori sono le quantità di sostanze chimiche tossiche nonché di acqua e di energia che saranno necessarie per l’estrazione dei minerali – sicché sempre più deleterio sarà l’impatto dei processi di estrazione mineraria sulla natura, i lavoratori e le popolazioni locali. Ciò che peggiora ancor di più le cose è che i metalli rari hanno un tasso di riciclaggio molto basso; addirittura le «terre rare» hanno un tasso di riciclaggio inferiore all’uno percento.

Sì, ora possiamo acquistare un selfie toaster, che abbrustolisce il toast imprimendogli sopra un’immagine della nostra faccia; oppure un porta-carta igienica che invia un messaggio al nostro cellulare quando la carta igienica sta per terminare. E di certo «Industria 4.0» riuscirà, tramite operazioni di marketing, a far sì che tutti noi compreremo beni e servizi di cui non abbiamo alcun bisogno. Ma i sacrifici ecologici e sociali che dovremo sopportare per questo tipo di «progresso» non sono evidentemente accettabili. Ciò di cui abbiamo invece estremo bisogno è uno sforzo politico finalizzato a superare il divario globale tra lavoro formale e informale, tra lavoratori «garantiti» e precari, tra persone eccessivamente ricche ed abitanti poveri, esclusi e marginalizzati del nostro comune pianeta Terra.

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(traduzione di Andrea Coveri)