Diceva Mark Twain che una delle differenze più evidenti tra un gatto e una bugia è che il gatto ha solo nove vite. In effetti la “balla” ne ha di infinite. L’ultima prova ce la fornisce l’intervista radiofonica di ieri di Salvini.

A parte lo strafalcione di parlare di lira al posto di euro (“il nostro obiettivo è che tutti riescano ad avere qualche lira in più nelle tasche da spendere”: un lapsus freudiano?) il neoministro degli interni, evidentemente competente anche in economia, ha ribadito la sua ferma fiducia negli effetti strabilianti dell’introduzione della flat tax. Che il ministro Tria vorrebbe finanziare dando via libera agli aumenti dell’Iva, con grave danno per i consumi popolari.

L’articolo 53 della nostra Costituzione vincola il sistema tributario “a criteri di progressività”, ma l’argomento è un mantra del neoliberismo e non c’è populismo che tenga. Come la cd “curva di Laffer” che ne costituisce il background culturale (si fa per dire). Correvano gli anni settanta quando un giornalista del Wall Street Journal si incontrò in un ristorante di Washington con l’economista Arthur Laffer che disegnò su un tovagliolo una curva a campana che doveva dimostrare che più si alza il prelievo fiscale minore è conveniente l’attività economica. La conclusione è che bisognasse drasticamente ridurre le tasse. Reagan e poi Bush padre lo fecero e fu un disastro, portando a livelli altissimi il debito pubblico americano, senza alcun beneficio per l’occupazione (anzi tre milioni di posti di lavoro in meno). Eppure le sorti gloriose della Laffer hanno continuato negli anni a fare danni. Un quotidiano italiano riferì che anche Benjamin Netanyahu, durante una sua visita all’Expò, riprodusse la curva di Laffer per spiegare all’allora commissario di Expò Giuseppe Sala la necessità per l’Italia di ridurre le tasse.

Con questi illustri precedenti Salvini non poteva rischiare di sfigurare. Ed eccolo quindi spiegare al colto e all’inclita che se uno paga meno tasse “assume un operaio in più, acquista una macchina in più e crea lavoro in più”. Insomma la riedizione in chiave padana della tristemente nota teoria del trickle down, ovvero dello “sgocciolamento” della ricchezza dall’alto in basso. Cosa che le statistiche non solo italiane negano che sia mai avvenuta. Il fallimento americano al riguardo lo dimostra. George W.Bush aveva introdotto rilevanti tagli fiscali ai redditi maggiori nella speranza di incrementare gli investimenti. Si è trovato di fronte all’acquisto di beni durevoli, perlopiù di importazione. In Italia gli investimenti che nel 1999 erano pari al 20% del Pil, si sono ridotti oggi al 17,2%, dopo avere toccato il 22% prima della crisi. La maggiore ricchezza di alcuni ha preso la strada della finanza e dell’esportazione illegale di capitali non quella dell’investimento produttivo.

Solo gli strati meno abbienti trasformano in consumi l’aumento delle loro scarse entrate. Quando sono messi in condizione di farlo, perché anche qui ci sonoi dei limiti. Gli 80 euro di Renzi sono perlopiù finiti a coprire situazioni debitorie pregresse. La flat tax non farebbe altro che aumentare la tesaurizzazione della ricchezza da un lato e ridurre al lumicino uno stato sociale già devastato dalle privatizzazioni. Ce lo ribadisce il Censis: nel 2017 gli italiani hanno speso per la sanità quasi il 10 per cento in più rispetto al 2013-2017. Se non rinunciano a curarsi, e sono milioni, si devono indebitare. Un fenomeno in pesante aumento in un paese che soffriva di debito pubblico ma molto meno di quello privato rispetto al quadro europeo. Sette milioni di italiani si sono indebitati, 2,8 hanno venduto casa per poterlo fare, 44 milioni hanno speso di tasca propria una cifra media pro capite di 665 euro. Destinata a raggiungere i mille euro entro il 2025 in assenza di interventi correttivi. Ma quali? Se il rimedio è quello di una polizza sanitaria o di un fondo integrativo su base occupazionale ci si scontra con la disoccupazione e la precarizzazione dilaganti. Insomma il famoso gatto di morde la coda.