Alla fine, pare che le Olimpiadi non siano state molto popolari fra i brasiliani, almeno a giudicare dai biglietti venduti. Quando non erano in lizza gli atleti di casa, larghi spazi vuoti dominavano le gradinate alle partite di tennis, alle sessioni di tuffi, sui green del golf, nelle palestre, nei tornei a squadre e persino nello stadio di atletica.

Certo, in Brasile non ha aiutato la peggior recessione economica da 25 anni a questa parte, con la conseguente riduzione dei redditi, e i tifosi dall’estero possono esser stati dissuasi da Zika e dai livelli di criminalità di Rio. Inoltre, moltissime discipline erano e restano estranee alla cultura sportiva brasiliana, come si è intuito fin dalla giornata inaugurale, assistendo alle riprese non all’altezza della prova su strada di ciclismo.

Seppur numericamente inferiore alle attese, la torcida si è fatta notare ed è stata persino rimproverata dai vertici del Cio per il tifo troppo rumoroso, per il sostegno ai beniamini di casa oltre i limiti della decenza e in generale per aver trasferito la passione tipica delle folle calcistiche in contesti non adeguati. Si sono lamentati i pongisti, solitamente abituati a gareggiare nel silenzio assoluto, al pari dei tennisti; hanno assaggiato l’esuberanza del pubblico sudamericano gli schermidori, di norma avvezzi a un’atmosfera assai ovattata; persino nel nuoto, gli speaker hanno dovuto invitare i fan a ridurre i decibel per consentire agli atleti un minimo di raccoglimento prima della partenza. Il saltatore con l’asta Renaud Lavillenie, fatto oggetto di pesanti salve di fischi durante il duello con il brasilianoThiago Braz da Silva, ha addirittura finito la competizione in lacrime.

D’altra parte, non è forse il sistema dei grandi eventi sportivi a “richiedere” agli spettatori una partecipazione perennemente oltre le righe? Non sono forse le occhiute telecamere a scandagliare ogni metro quadrato degli spalti alla ricerca di emozioni sfrenate, merce mai avariata nel mercato televisivo? Non è pertanto l’eccesso di visibilità degli spettatori uno dei fattori che concorre a scatenarne i comportamenti più censurabili? Così come la maggioranza non ha sempre ragione, le folle, bisogna ammetterlo, non sono sempre innocenti. Ma è indubbio che vi sono diversi livelli di responsabilità fra chi gremisce uno stadio per assistere a una Olimpiade e chi ne organizza e gestisce la trasmissione planetaria.

La moderna ripresa delle manifestazioni internazionali esige che lo spettatore, come i competitori, agisca da protagonista. Se è esaltato per una vittoria, lo si mostra al massimo dell’estasi; se viceversa piomba nello sconforto per una débâcle, il suo volto inconsolabile contrappunta visivamente il commento giornalistico; se in campo lo spettacolo latita, supplisce con ola gioiose o urla di giubilo per un’inquadratura sul maxi-schermo e quindi in mondovisione. Anche gli atleti sono coinvolti nel processo e mostrano di considerare i fan come attori partecipanti e non come osservatori inermi: non si contano i selfie del campione contornato da tifosi inebriati, o, per stare alle Olimpiadi appena concluse, nelle cerimonie inaugurali e di chiusura, il gioco di specchi fra il pubblico che filma i propri idoli e questi che a loro volta riprendono le tribune festanti.

Proprio la diffusione dei nuovi media ha contribuito a riscrivere il ruolo dello spettatore, che può a piacere soddisfare la brama di documentare la sua presenza, di attestare di esserci stato e, soprattutto, di arricchire i propri profili social, in un’infinita relazione biunivoca che spezza i nessi tradizionali fra realtà e racconto, che frastaglia il confine fra l’evento che accade e i mezzi di narrazione che sono lì per testimoniarlo.

E come sempre capita nelle vicende umane, ci confrontiamo con una tagliente ambiguità: dobbiamo essere contenti perché ci sottraiamo al consueto cliché del consumatore passivo o affliggerci perché ormai sappiamo godere di uno spettacolo solo attraverso l’occhio elettronico di una telecamera?