Con l’accordo di Parigi siglato nel 2015 ci si era posti l’obiettivo di evitare che l’aumento della temperatura media globale superasse i due gradi celsius; i 5 anni che sono trascorsi da quell’accordo sono stati i più caldi di sempre e tutti i climatologi concordano nell’affermare che non riusciremo a rispettare gli impegni presi, mentre i danni causati dalle alterazioni del clima sono già evidenti. Nessuno nutre dubbi sul fatto che l’industria del fossile abbia contribuito enormemente all’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, il punto di partenza del riscaldamento globale, ma i numeri e le modalità che emergono dal libro, edito da Piemme, Tutte le colpe dei petrolieri. Come le grandi compagnie ci hanno portato sull’orlo del collasso climatico sono impressionanti. Si tratta di una ricerca molto approfondita e chiara realizzata da Marco Grasso, professore di Geografia Economica e Politica all’Università di Milano Bicocca, che intervistiamo, e da Stefano Vergine, giornalista freelance e premio Pulitzer per l’inchiesta sui Panama Papers.

Quella della relazione fra industrie petrolifere e cambiamenti climatici è una storia di potere, responsabilità, silenzi, occultamenti. E’ da più di 50 anni che è chiaro che gas e petrolio compromettono il clima, ma si è tardato molto ad ammetterlo. Individuare dove stanno le responsabilità maggiori non serve solo a puntare il dito ma anche a stabilire una volta per tutte in che modo invertire una rotta che punta dritta al collasso.

Professor Grasso, quali i dati mostrano in maniera più significativa le responsabilità causali dell’industria fossile, ovvero l’entità del contributo che ha dato ai cambiamenti climatici?

È necessario premettere che quando parliamo di contributo diretto alle emissioni stiamo facendo riferimento non solo a quelle relative ai loro processi industriali, ma anche quelle associate ai prodotti che poi vengono venduti, come benzina e gasolio; questo è il metodo di calcolo delle emissioni stabilito a livello internazionale dalla Ipcc; per quanto riguarda i dati, riportati da pubblicazioni scientifiche ufficiali, ci dicono delle cose incredibili: il 71% delle emissioni globali dal 1988 ad oggi è stato prodotto da 100 società dei combustibili fossili, di cui conosciamo nome e cognome.

Lo stesso peso si riscontra per gli impatti?

Certamente, vediamo che 100 di queste compagnie, a partire dal 1980, hanno contribuito a un incremento di circa il 43% della concentrazione dei gas serra in atmosfera, al 29-35 % dell’innalzamento della temperatura media globale e tra l’11 e il 14% dell’innalzamento del livello dei mari; andando ancora più nel dettaglio troviamo che tre compagnie private, che sono IP, Chevron e Exxon, hanno contribuito, sempre dal 1980, all’innalzamento del 6% del livello dei mari.

Nonostante dati inequivocabili, il rapporto causale fra industria petrolifera e cambiamenti climatici non è ancora chiaro.

Questo introduce il tema di quella che noi chiamiamo la responsabilità morale, che esiste nel momento in cui si verifica l’intenzione, la conoscenza, la volontà. Nella relazione fra compagnie petrolifere e industria fossile ci sono una serie di fatti moralmente rilevanti, anch’essi provati da dati e analisi ufficiali, come l’essere a conoscenza già a partire dagli anni Cinquanta delle conseguenze negative dell’industria fossile e di quello che sarebbe successo; negli Stati Uniti gli scienziati di Humble Oil (in seguito assorbita da Standard Oil, che poi si è evoluta in ExxonMobil) pubblicarono su una rivista scientifica uno studio che collegava l’attività della società ai cambiamenti climatici già nel 1957, quando questo nesso è stato riconosciuto pubblicamente per la prima volta nell’aprile del 2014. Nel 1959, all’incontro annuale della Api (American Petroleum Industry, la confindustria americana dei petrolieri), si è presentato un fisico all’epoca molto famoso, Edward Teller, che davanti a tutti ha raccontato esattamente cosa stava succedendo a causa della combustione dei prodotti fossili. Sempre gli scienziati della Exxon, negli anni Settanta, hanno pubblicato uno studio includente un grafico che prevedeva, per il 2020, concentrazioni di anidride carbonica che effettivamente corrispondono alle attuali; una consociata canadese della Exxon, negli anni Ottanta, ha cominciato a cambiare le sue tecnologie di trivellazioni nell’artico per tenere conto dell’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacci. Ciononostante, le compagnie sono andate avanti con lo stesso modello di business, perché decarbonizzarlo progressivamente avrebbe diminuito i loro introiti; non lo hanno fatto anche se avevano la capacità di farlo.

Le compagnie non solo sapevano e hanno taciuto, ma hanno anche negato…

Infatti l’altro fatto rilevante è stata la straordinaria, efficientissima e sofisticatissima campagna di negazionismo che hanno messo in piedi a partire dagli anni Novanta: mentre gli scienziati al loro interno mostravano il nesso fra combustioni ed alterazioni della temperatura, il management di queste compagnie ha continuato palesemente a seminare il dubbio sui cambiamenti climatici e la loro origine antropica nelle comunicazioni pubbliche, contribuendo a formare e diffondere l’impressione che le ragioni alla base dei cambiamenti climatici fossero ancora largamente incerte. Poi ci sono le operazioni di marketing, come il greenwashing, una macchina sofisticatissima che costruisce un immagine falsamente positiva dei combustibili fossili come il gas, che viene fatto passare come energia pulita, oppure una focalizzazione sui consumi che allontana da loro le responsabilità, nel momento in cui giustifica la produzione dai fossili come necessaria per soddisfare la domanda, colpevolizzando il consumatore che non ha sensibilità ecologica: a questo proposito in pochi sanno che il primo contatore della famosa impronta ecologica è stato messo on line dalla BP: in realtà una strategia per spostare le responsabilità a un livello individuale.

Ora che la pressione sociale e politica per contrastare i cambiamenti climatici è più forte, l’industria petrolifera sta cambiano i suoi modelli di business e se sì, in che modo?

Molte compagnie dicono di puntare a un futuro con basse emissioni e stanno facendo delle promosse, come quella di neutralizzare le proprie emissioni da qui al 2050; ma se andiamo a vedere cosa significa nei dettagli, scopriamo che puntano a questo obiettivo con le tecnologie ad emissioni negative, quelle che dovrebbero sequestrare anidride carbonica dall’atmosfera e sono ancora sperimentali; poi ancora una volta i dati, in questo caso dello Iea, l’agenzia internazionale dell’energia, mostrano come nel 2019 le spese in conto capitale delle compagnie, che ora non si fanno più chiamare petrolifere ma energetiche, alla voce combustibili fossili sono state il 99,2% di quelle totali, mentre solo lo 0,8% è andato alle energie rinnovabili e alle tecnologie a emissioni negative.

Il libro esordisce con una domanda fondamentale: un’economia senza petrolio e gas è sostenibile economicamente, oppure ci ritroveremmo tutti più poveri?

Una parte della retorica utilizzata dall’industria petrolifera è che l’energia corrisponda a quella fossile e che le rinnovabili non siano in grado di sostenere la crescita economica. Eppure esiste molta letteratura scientifica sul tema che sostiene che green economy non corrisponde a decrescita, e che la rivoluzione verde non farà diminuire, bensì aumentare i posti di lavoro. Ovviamente si tratta di un investimento, che ha dei costi, e di un processo che non può avvenire dall’oggi al domani, perché siamo bloccati a livello infrastrutturale su un modello basato sul petrolio. Ma siamo bloccati anche da un concetto naturalizzato del petrolio, considerato come ineliminabile e indispensabile al punto da accettarne i danni, perché altrimenti il sistema crollerebbe. È comprensibile perché siamo nati e cresciuti con il petrolio, ma è arrivato il momento di condannarlo e di investire sulle alternative, che esistono e sono sostenibili.