Chi ha paura del voto anticipato? I luogotenenti di Renzi, che agitano le urne come spauracchio, sanno bene di avere in mano una pistola scarica. Vendono fumo e cercano di spaventare i senatori più creduloni con lo spettro di un ritorno a casa. Che non ci sarà, qualunque sia l’esito delle scaramucce sul destino di palazzo Madama.
Eppure, affidarsi alle schede sarebbe il rimedio a una condizione di palese anomia democratica. Con un parlamento che non corrisponde agli orientamenti elettorali del 2013, il ricorso alle urne sarebbe un fisiologico momento di ricarica del sistema. Ma in Italia vige uno strano concetto di responsabilità: alla prima emergenza, bisogna sospendere la democrazia e progettare alchimie parlamentari bizzarre, che spezzano equilibri, rompono procedure e garanzie.
Insomma: la vera emergenza, è l’invenzione di governi di emergenza, che travolgono gli argini del regime parlamentare, impongono degli strappi costituzionali costosi. La parola agli elettori sarebbe un segnale del risveglio di una minimale sensibilità democratica. Partiti che non esistono più, formazioni nuove che non si sono mai cimentate con il consenso, cambiamenti interni ai partiti che hanno stravolto il loro originario programma elettorale, oltre 200 parlamentari che hanno cambiato gruppo: indicatori evidenti che la durata artificiale della legislatura è una sfida illogica rispetto alle esigenze sistemiche di un ripristino della normalità dell’indirizzo politico.
Anche la dichiarata illegittimità della formula elettorale, con la quale il parlamento è stato designato, avrebbe dovuto spingere la classe politica al varo di una tecnica compatibile con il disegno costituzionale, per andare presto al voto. Nulla di questo è accaduto. E la sola carta valida, per il sostegno illimitato all’esecutivo, rimane la promessa della durata ad oltranza della legislatura. Accettano tutto i deputati, pur di resistere qualche giorno in più nella funzione. In Italia non c’è bisogno della clausola costituzionale tedesca della sfiducia costruttiva per assicurare governabilità e durata alla legislatura: gli elevati emolumenti ne sono un efficace surrogato.
Eppure, la proroga meccanica di una legislatura nata nel segno di un tripolarismo che condannava all’ingovernabilità, con quotidiane soluzioni di forza e operazioni di abituale trasformismo, non fa bene al sistema politico. In Algeria, quando vinsero i movimenti islamici radicali, si ritenne opportuno sospendere l’esito del voto, con rimedi coercitivi che non hanno però salvato il regime. E hanno anzi alimentato il terreno di coltura del terrorismo in tutta l’area. Contro i vincitori del 2013, il M5S, sono state condotte pratiche cieche di contenimento e immunizzazione che non hanno certo cicatrizzato la piaga.
Che il secondo partito, il Pd, approfitti dei truffaldini numeri a lui favorevoli in aula per scrivere una legge elettorale conveniente al suo leader del momento, e per mettere fuori gioco il primo partito, il M5S, significa soltanto cavalcare le stesse illusioni dei politici algerini. Un sistema che si difende dai barbari con ritrovati illiberali, non è destinato a durare e a vincere la battaglia. Non esistono surrogati tecnici alla politica. E alla fine le tendenze reali, che si intendevano soffocare con prove di forza, troveranno i canali per riaffiorare e far saltare il quadro.
Il timore del voto non fa che comprimere un sistema che esploderà in forme ancora più virulente alla prima occasione. La scelta di brandire le urne, da parte di un governo abusivo perché frutto di numeri parlamentari alterati, è di per sé poco credibile. E purtroppo, neppure in caso di bocciatura delle riforme costituzionali relative al senato, si andrà il voto, per sanare un deficit di rappresentanza democratica divenuto insostenibile. Soprattutto in caso di sgonfiamento della grande riforma, le urne si allontanano. Il premier non sa cosa sia il governo di una società complessa, annusa però che non gli conviene andare al voto dopo lo schiaffo di una sconfitta sulle riforme.

Alle urne si andrebbe con il meccanismo proporzionale. E quindi per il Pd si profila un disastro: circa 150 seggi in meno di quelli che raccoglie ora. E poi con il pasticcio dell’Italicum imposto (con voto di fiducia e aule deserte) per la camera (meccanismo ultramaggioritario), e del Consultellum rimasto per il senato (formula proporzionale), il governo metterebbe in serio imbarazzo il Colle per aver firmato una legge irrazionale, sulla base di un (solo) ipotetico superamento del bicameralismo paritario. Il voto a riforme incompiute, lascerebbe «scoperto» il Quirinale, che invece come potere neutro andrebbe protetto dall’imputazione di responsabilità politica.
I senatori ribelli non rischiano nulla. Il solo che vacilla è Renzi. La sua deposizione, peraltro, non sarebbe un danno in una democrazia ritrovata: la sua condotta dilettantesca stravolge gli equilibri istituzionali, la sua irrimediabile carenza di leadership lo costringe a infinite leggi delega e a strabocchevoli voti di fiducia. Il leader trivellatore non ha un’idea di sviluppo e però ha un’inconfondibile anima sociale: che non è quella del lavoro, ma della finanza e del capitale.
I deputati non avranno mai la dignità di liberare le istituzioni da un interprete privo di autorevolezza e di restituire alla movida toscana un abile giocatore di calcio balilla. E quindi si andrà avanti ancora per un po’ nel gran ballo mascherato della finzione. La minoranza Pd, con le bizze, conquista un po’ di visibilità, ma ha scelto una battaglia, quella sulla elettività del senato, che non colpisce il bersaglio grosso delle riforme renziane. Che è l’Italicum, autentica provocazione in una democrazia d’occidente.
Un senato elettivo, ma senza potere di vita e di morte sui governi, non smonta i piani dell’esecutivo. Le riforme avevano un solo obiettivo: evitare l’incertezza del passaggio al senato per la fiducia. E questa semplificazione, con la previsione di un’investitura popolare diretta del capo della lista vincente, è stata incassata. I don Abbondio della minoranza non andranno fino in fondo nell’imboscata. E Renzi eviterà lo scontro aperto perché l’elettività del senato non è per lui una questione dirimente. Teme solo di perdere tempo rispetto al calendario fissato.
Costruire un’alternativa a questa decadenza del politico che arranca nella palude di una legislatura che uccide ogni decisione e si trascina nella noia della comunicazione e di accordi con Verdini, è la sola cosa ragionevole. Se da sinistra non si disegna un’opposizione efficace a Renzi, come simbolo estremo della dissoluzione della politica in chiacchiera che fa da schermo a interessi forti, sarà una sollevazione di eterogenee formazioni antisistema ad archiviare un populismo mite con un incontenibile populismo a tinta forte.