Mentre si aspetta di vedere se l’attuale legislatura si rivelerà un aborto o avrà almeno qualche mese di vita, è sicuro che il 26 maggio 2019 si voterà in Italia per il rinnovo del Parlamento europeo. Una data affatto lontana, anzi politicamente vicinissima, per la quale bisogna prepararsi fin d’ora, a maggior ragione visto lo stato disastroso della sinistra messo a nudo dal voto nazionale.

IL TEMA EUROPEO ERA GIÀ entrato nella campagna elettorale per il 4 marzo, ma non per merito della sinistra. Se si esaminano i programmi con cui le forze alla sinistra del Pd si sono presentate, si fatica a trovare parole dedicate al tema europeo e quando ci sono appaiono piuttosto fumose e indeterminate. Un segnale evidente delle divisioni interne a ciascun schieramento sul tema cruciale se bisogna puntare ad una difficile trasformazione dell’Europa o apertamente alla fuoriuscita dalla Ue e dalla moneta unica. Un’ambiguità che richiede di essere sciolta.

Dal canto loro le forze economiche dominanti hanno fatto del tema europeo una sorta di spartiacque tra i buoni dai cattivi. Alle forze dell’arco costituzionale di antica memoria, si è cercato di sostituire quello delle forze fedelissime alla Ue. Gli editoriali del Sole 24 Ore hanno disegnato uno scontro tra l’Europa di Ventotene e quella di Visegrad.

Si è trattato di una rappresentazione fasulla, poiché il contrasto reale era ed è tra le forze di Maastricht e quelle di Visegrad ovvero tra quelle legate alla tecnoburocrazia di Bruxelles e alle politiche di austerity fin qui perseguite, e ribadite dal rinvigorito asse franco-tedesco, e quelle sovraniste e xenofobe interpretate dall’alleanza fra Polonia, Ungheria, repubblica Ceca e Slovacchia e l’insieme variegato delle forze populiste di destra – con qualche inquietante sfondamento anche a sinistra – sparse nei paesi del vecchio continente.

Dovrebbe quindi essere chiaro quale è il senso e il ruolo della presenza di una sinistra europea. Quello di spezzare quella tenaglia fra globalizzazione liberista e nazionalismo reazionario, facendo concretamente vivere una posizione radicalmente critica verso questa Ue, verso le sue politiche economiche che ne accentuano la crisi, le scelte criminali sui migranti, la mancanza di una reale democrazia negli organi della sua governance, segnata dall’impianto intergovernativo e aggravata dall’indirizzo a-democratico del moderno capitalismo. Una posizione alternativa alla Ue e ai suoi Trattati e Direttive, che va declinata nella nuova situazione, ma non votata al ritorno allo stato-nazione. Su questa scelta di fondo si era mossa l’esperienza de L’Altra Europa con Tsipras, che cinque anni orsono riuscì, con una lista aperta a forze, organizzazioni, realtà di movimento e singole personalità, a garantire un minimo di rappresentanza nelle istituzioni europee. E’ la scelta che viene rilanciata oggi dal Partito della Sinistra Europea, con cui vuole aprire un dialogo con le forze antiliberiste, alcune delle quali già in campo con proprie proposte. Un’azione che sarebbe tanto più efficace se questo stesso partito si affermasse come un soggetto politico sovranazionale in quanto tale e non semplicemente una somma di partiti nazionali .

LA GLOBALIZZAZIONE HA prodotto la più grande crisi economica del capitalismo – soprattutto in Europa che a sua volta ha inceppato i meccanismi trionfanti della globalizzazione. Sia sul versante del movimento dei capitali, che su quello dei commerci e soprattutto su quello delle delocalizzazioni di imprese, che era il punto più caratteristico di questa globalizzazione.

Sono tutti fenomeni complessi, che avvengono in modo non lineare, ma insieme indicano una direzione di marcia.

Negli ultimi cinque anni i profitti delle multinazionali nei settori tradizionali sono sensibilmente diminuiti. Pesa l’innalzamento del costo del lavoro in molti paesi emergenti. La minore possibilità di arbitraggio fiscale con le amministrazioni locali. Diventa più conveniente produrre in patria e farsi tassare all’estero, ove la pressione è inferiore. La robotizzazione favorisce la rilocalizzazione delle imprese (il cd reshoring), dal momento che la disoccupazione tecnologica rende il costo del lavoro meno rilevante, mentre lo sono di più le immediate connessioni con il sistema produttivo e distributivo. Lo stesso nostro paese ne è investito.

Questo non significa che il finanzcapitalismo viene meno – anzi si profilano nuove bolle finanziarie – ma che trova conveniente una certa de-globalizzazione dell’economia reale e produttiva. Esso crea nuovi spazi che non coincidono con le vecchie frontiere, specialmente quando può liberarsi da investimenti fissi e carichi occupazionali diretti come avviene con il capitalismo delle piattaforme. Ancora meno che prima la risposta può essere trovata nei vecchi ambiti nazionali.

PER CONVERSO IL RITORNO al nazionalismo, con il suo corredo di protezionismo economico e di aggressività bellica non è solo retorica, ma concreta pratica di cui Trump è il prodotto e l’alfiere. Se non si vuole che l’Europa continui a essere vittima di sé stessa e di questi processi; se non si accetta che essa imploda o cristallizzi una divisione fra paesi del Nord e del Sud, come già era previsto in un vecchio progetto di Schauble degli anni novanta; se si vuole impedire che il sogno europeo “figlio incerto dell’ansia”, come diceva Tony Judt, diventi un incubo, bisogna lavorare per una riscrittura delle basi su cui si fonda.

Conosco l’obiezione: il Trattato è rigido e si basa sull’accordo dei vari governi. Ma anche la fuoriuscita di un paese non è contemplata. In ogni caso il cammino verso un’Europa federale e solidale richiede politiche economiche alternative in settori innovativi fondate sulla lotta alla disoccupazione, sul reddito universale e la tutela dell’ambiente, sul diritto delle persone, migranti inclusi, a muoversi liberamente e su istituzioni democratiche. Quindi l’estensione del conflitto su scala sovranazionale. Non un pranzo di gala.