Al presidente della Repubblica non piace sentir parlare di elezioni anticipate. Considera a termine il suo secondo mandato al Quirinale, ma finche c’è si tiene ben stretto il potere di scioglimento delle camere. E non intende esercitarlo, no di certo in piena presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea e in assenza di una compiuta riforma della legge elettorale. Dunque la risposta che Renzi ha fatto arrivare a Berlusconi, quell’«all’ora andiamo subito al voto» veicolato dai giornali e dai parlamentari amici in replica alla «rottura» dell’ex Cavaliere sulle riforme costituzionali, richiedeva una registrata. Che puntuale è arrivata nel pomeriggio di ieri, qualche ora dopo la conclusione del colloquio al Colle tra Napolitano e Renzi. «L’orizzonte di Renzi resta quello del 2018» è la formula scelta a palazzo Chigi.

Il presidente del Consiglio fa sapere di essere ancora e sempre «tranquillissimo». Le difficoltà che la sua «corsa» sulle riforme sta incontrando sono, a suo avviso, legate alle «fibrillazioni elettorali». E dunque, malgrado l’obiettivo del primo sì in senato entro il 25 maggio sia ormai evaporato, il messaggio è lo stesso del giorno in cui ha presentato il suo primo progetto di revisione del bicameralismo paritario, tre mesi fa: «Siamo a un passo dal chiudere positivamente la partita delle riforme». Strategia evidentemente comunicativa, che però si fonda su un’analisi politica condivisa con il Quirinale: Berlusconi non farà saltare il tavolo. Non gli conviene, sta solo cercando di evitare che sia Renzi a prendersi tutto il vantaggio elettorale. Intenzione chiarissima nelle parole di ieri dell’ex Cavaliere: «Le riforme che arrivano non sono del signor Renzi, sono le nostre riforme».

A sostegno della sua quotidiana professione di ottimismo, il presidente del Consiglio si aggrappa a un paio di frasi del leghista Calderoli, che passa come uno contrarissimo alla riforma proposta dal governo (è stato scelto come relatore di minoranza) ma è disponibile a un compromesso, a patto di individuare una forma di elezione diretta dei senatori. E poi Renzi può scegliere dal profluvio berlusconiano di giornata: «L’unica riforma che vogliamo davvero è quella del senato», oppure «siamo pronti a sederci a un tavolo per discutere sull’effettiva composizione del senato».

I bluff sono in realtà due, non c’è solo quello del Berlusconi in campagna elettorale. Anche tutte le dichiarazioni di ministri, parlamentari renziani e cerchio stretto del segretario Pd sull’autosufficienza della maggioranza si fondano sul nulla. Non è vero infatti che «c’è una maggioranza per approvare il disegno di legge costituzionale del governo anche senza Forza Italia», di certo non in commissione affari costituzionali. Ecco dove può fondarsi quella tentazione riferita ieri dal Corriere della Sera – che sarebbe però clamorosa per un testo di revisione costituzionale non di iniziativa parlamentare ma imposto dal governo alle camere – di chiudere a metà i lavori in commissione, per portare il confronto finale sul disegno di legge Renzi-Boschi direttamente nell’aula del senato.

Soluzione davvero troppo forzata. Saranno allora e ancora i prossimi tre giorni quelli da seguire con attenzione. Renzi è deciso a trattare la riforma della Costituzione come un dossier schiettamente governativo, sarà direttamente lui a incontrare la presidente e relatrice Finocchiaro e il capogruppo dei senatori Pd Zanda, domani. Poi guarderà in faccia i senatori «ribelli» martedì mattina, giorno nel quale con una maratona dovrà concludersi la discussione generale sulla riforma, in commissione. Poi mercoledì si conoscerà il testo base proposto da Finocchiaro, ed è ormai scontato che non potrà essere automaticamente quello del governo, come si ostinano a pretendere gli ultras reziani. Che forse ignorano com’è andato il dibattito tra i senatori in dieci giorni di lavoro.

Sono stati in commissione 46 gli interventi sul disegno di legge costituzionale proposto dal governo, e sugli altri 50 di iniziativa parlamentare – la maggior parte dei quali ignorati persino dai proponenti. Ben 35 interventi hanno duramente criticato il meccanismo di composizione del senato immaginato da Renzi, cioè la non elettività dei senatori. Altri sei interventi sono stati ugualmente contrari, ma hanno posto l’accento su altri aspetti della legge, soprattutto sulle competenze del nuovo senato. Solo cinque senatori hanno difeso il testo governativo, e mentre le critiche sono arrivate da quasi tutti i partiti (M5S, Sel, ex grillini, Forza Italia, Ncd, Gal e Pd) i pareri favorevoli sono stati tutti e solo del gruppo del Pd (più la montiana Lanzillotta). Un panorama che la relatrice non potrà ignorare, anche se cercherà di aggirare senza divellere i «paletti» fissati da Renzi, il più ingombrante dei quali è proprio la non elettività dei senatori. Una nebbia di concessioni minori e modifiche su aspetti non decisivi (come l’assurdità dei 21 senatori di nomina quirinalizia, o lo stesso numero di rappresentanti riservato al Molise come alla Lombardia) proverà a nascondere la chiusura a riccio del governo. Altre modifiche ci saranno, ma potrebbero persino peggiorare il risultato. Allargare di molto la competenza legislativa del nuovo senato, ad esempio, potrà addolcire i senatori. Ma renderà ancora più assurdo questo bicameralismo dei sindaci e dei presidenti di regione. Trasformati in legislatori part-time.