Una pioggia di missili e colpi di mortaio si è abbattuta ieri sulla cittadina di Al-Ma’batli, nel distretto di Afrin: una famiglia di sette persone è stata sterminata e, dicono fonti locali all’agenzia di Stato siriana Sana, case e edifici pubblici sono stati distrutti.

A sette giorni dall’inizio di “Ramo d’ulivo”, l’operazione di terra turca contro il cantone della curda Rojava, la battaglia è quotidiana. Le scuole sono chiuse: i bombardamenti sono incessanti, impossibile solo pensare di mandare i figli a scuola. Di numeri precisi non ce ne sono, di certo si contano almeno 5mila sfollati, già arrivati nei villaggi siriani al confine nord.

Più difficile fare un bilancio delle vittime. Negli ospedali di Afrin e nei comunicati delle Forze Democratiche Siriane si parla di 59 civili uccisi e 134 feriti e 43 morti tra i combattenti delle unità di difesa popolare Ypg e Ypj. L’offensiva turca si abbatte sui civili, 1,2 milioni in tutto il cantone, di cui la metà sfollati da altre zone della Siria: «Nel 2011 la popolazione di Afrin era la metà di oggi – ci spiegano al telefono i responsabili dell’Information Center of Afrin Resistance – Un dato che mostra l’ospitalità verso persone di altre religioni ed etnie. Con questo attacco brutale lo Stato turco tenta di distruggere un modello di coesistenza pacifica dei popoli, di cui Rojava è pioniera».

I bombardamenti aerei e i colpi di artiglieria, aggiungono, sono continui dal 20 gennaio e il problema principale è tenere in piedi il sistema sanitario: «Ci sono sei ospedali in tutto il cantone, solo tre funzionanti al momento. Giovedì i caccia turchi hanno bombardato l’ospedale di Jinderes e questo rende la situazione ancora peggiore. Negli altri mancano medicinali».

Ma la città, insistono, è protetta: «Una delle tattiche della guerra turca è l’aspetto psicologico, la distorsione dei fatti. È vero che l’esercito turco e i gruppi estremisti affiliati hanno provato a entrare ad Afrin ma sono solo riusciti ad arrivare alla collina di Qala, da cui sono stati respinti dalle Forze Democratiche Siriane. Hanno lanciato offensive sui villaggi di Raco, Bilbil e Jinderes ma sono stati fermati dalle Sdf».

Due narrative molto diverse: da una parte le Sdf ieri riportavano l’uccisione di 308 uomini, tra soldati turchi e miliziani dell’Esercito Libero Siriano, e dunque di un’efficace resistenza da parte di Afrin, nonostante quasi 700 colpi di mortaio e 191 raid aerei si siano abbattuti sul nord-ovest della Siria dal 20 gennaio; dall’altra Ankara minimizza, con il ministero della salute che ieri dava un bilancio di tre soldati e 11 miliziani dell’Els uccisi e 130 feriti, di cui 82 già dimessi dagli ospedali. E l’esercito aggiunge: non sono solo 43 i combattenti curdi uccisi ma 343, otto volte tanto.

Il presidente Erdogan, grazie anche alla censura imposta alla stampa turca e corredata dagli ormai noti rastrellamenti, dipinge l’operazione come un successo. Tanto efficace che ieri ne ha annunciato l’allargamento: non più solo a Manbij, nel centro-nord, ma fino al confine orientale con l’Iraq. Ovvero l’esatto corridoio di terre che è Rojava, da Afrin a Jazira: «Ci sbarazzeremo dei terroristi di Manbij come promesso e la nostra battaglia continuerà finché nessun terrorista sarà più presente fino al nostro confine con l’Iraq».

L’ampliamento delle mire turche, affatto inibite da un possibile faccia a faccia con i marines Usa di stanza a Manbij o dai velati appelli europei ribaditi giovedì a Bruxelles al ministro per gli affari Ue Celik, ha mosso le autorità curdo-siriane che giovedì hanno lanciato un appello al governo di Damasco affinché intervenga al loro fianco per fermare l’aggressione turca e la palese violazione della sovranità nazionale siriana. Al presidente Assad è stato chiesto di inviare l’esercito «a protezione delle frontiera della zona di Afrin».

Una mano tesa ad un governo con cui i curdi non sono mai entrati in conflitto, preferendo non allargare la fila delle opposizioni e non negando mai l’appartenenza alla nazione siriana: un anno fa Rojava lo ribadì ribattezzandosi Federazione del Nord della Siria, scevra di riferimenti a etnie o confessioni.