L’analogia tra macchina da presa e arma da fuoco è sempre stata nel DNA del cinema americano, tra war-movies e scene di caccia, tra western e film di gangster. Il colpo (letale) percorre la distanza in un attimo, la rende insignificante senza annullarla, come se lo spazio stesso, il fatto stesso d’essere identificabili in uno spazio, uccidesse.

Nei war-movies in particolare, quando si filma una battaglia, nessuno muore se non è inquadrato dall’obbiettivo (della mdp), e dunque ogni entrata in campo, ogni inquadratura in cui compare, rappresenta, per il personaggio, un potenziale pericolo – si sa che la morte, indipendentemente dal coraggio e dalla qualità dell’addestramento, può arrivare in modo casuale, all’improvviso, da un colpo sparato magari a casaccio. Difficilmente, nella guerra moderna, il nemico si incontraspesso neanche lo si vede, per quanto, in un film, campo di battaglia e campo dell’inquadratura coincidano.

Nella guerra, lo spazio aperto ridiventa spazio del pericolo (di morte) per eccellenza, tornando in un certo senso a essere quello che era per l’uomo della preistoria: luogo di possibili agguati e assalti improvvisi (da parte di animali feroci, di uomini d’una tribù rivale, ecc.), ma anche luogo della caccia, dove è necessario inoltrarsi non solo per fare provvista di cibo, ma per provare la propria forza, la propria astuzia, le proprie armi – luogo, dunque, del faccia a faccia radicale, dello scontro, del mors tua vita mea, e di conferma della propria identità.

Nella guerra moderna, tuttavia, dove ci si uccide (più che altro) a distanza, difficilmente il pericolo lo si vede arrivare. Il colpo che ferisce o abbatte sopraggiunge invisibile – o meglio, è visibile solo l’impatto (distruttivo) sul corpo che è stato colpito. Su questo si basa la strategia del cecchino, del tiratore scelto ben appostato e nascosto, in una postazione tale da permettergli di dominare il più possibile il campo visivo.

La posizione del tiratore scelto in agguato coincide dunque con quella d’una mdp piazzata strategicamente in modo da offrire la massima visibilità (campo totale) della scena di battaglia, poiché è proprio la visibilità, ossia l’ingresso nell’inquadratura, a designare i possibili bersagli.

Lo spazio aperto è solcato da innumerevoli traiettorie letali, che formano al suo interno una rete invisibile di morte, tessuta di fili altrettanto invisibili. Entrare in questo spazio significa esporsi, assumere, senza saperlo, il ruolo di vittima potenziale. Il tiratore, colui che vede, è il dominus che, decidendo della vita e della morte altrui, trova conferma della propria esistenza.

Chris Kyle è sposato, ha figli, ma esiste (prima di tutto glielo ha insegnato suo padre) perché è capace di uccidere cervi, a caccia, o iracheni, in guerra, anche se per questa seconda attività gli occorrono alibi ideologici.

Certo – ma Clint Eastwood sa, o almeno le sue immagini mostrano, al di là delle intenzioni esplicite o implicite, al di là delle semplificazioni sempre operate dai diversi schieramenti ideologici,, che le cose sono sempre alquanto più complicate. Può darsi che nel mirino del tiratore patriottico, dell’eroe col quale le immagini tenderebbero a farci identificare, venga inquadrato un bambino, un piccolo “terrorista” al quale la madre ha appena consegnato una granata da scagliare contro i soldati americani. Quale sarà allora la posizione dello spettatore (occidentale)? Non oscillerà forse dolorosamente, proprio come Chris Kyle (almeno, il Chris Kyle del film)?

No, il patriottismo non basta. L’esportazione della democrazia denuncia la sua natura di pretesto. In un attimo, un nugolo di polvere gialla accecante mette in crisi le ragioni dell’eroe. La sua personalità, salda in apparenza, si sgretola. Chris si scinde, diventa due – è lui, e in qualche modo è anche il suo antagonista Mustafà, il tiratore scelto siriano che, a distanza, gli si contrappone. Chris Kyle 1/vs/Chis Kyle 2. C’è perfino un accenno di somiglianza, e comunque è flagrante la somiglianza delle rispettive inquadrature. Tra l’altro, tutti e due sono sempre inquadrati mentre sparano nella stessa direzione, non in direzioni contrapposte (quasi fossero errori di montaggio!).

Lo spazio, abbiamo detto, è percorso da traiettorie letali invisibili. Clint Eastwood è un regista che non potrebbe essere più alieno dall’utilizzo di qualunque effetto speciale elettronico. Eppure, nel filmare il colpo decisivo che Kyle 1 indirizza verso Kyle 2 , usa un effetto alla John Woo. Il proiettile si vede, si vede mentre solca lo spazio partendo in ralenti. Tra tutte le traiettorie invisibili, questa non lo è. Un filo nero, pesante, come un cordone ombelicale, lega attraverso lo spazio le due facce del Doppio.

Alla fine, un mesto corteo funebre attraversa l’America, tra bandiere che non riescono più a sventolare in un accenno di pioggia che somiglia a un lutto delle cose – ma per chi è quel funerale, se non per le illusioni che si sono trasformate in incubo?

Alessandro Cappabianca