È stato presentato alla Camera il testo Dadone (M5S) sulla riforma dell’art. 71 della Costituzione e sul referendum propositivo. La sostanza non cambia: iniziativa popolare rafforzata con proposta di legge sorretta da 500mila firme.

Inoltre: mancata approvazione o approvazione con modifiche da parte delle Camere; sottoposizione a referendum approvativo senza quorum del testo presentato o di entrambi nel caso di modifiche; numerosi casi di inammissibilità. Se ne parla a gennaio.

Personalmente, non penso a un’apocalisse della democrazia rappresentativa o della democrazia tout court. Ma abbiamo visto già troppi apprendisti stregoni, mestieranti, riforme malfatte. E certo preoccupa che il testo tenga poco o nessun conto delle opinioni espresse dai costituzionalisti – me compreso – in audizione.

Perché una iniziativa popolare rafforzata? Si agita una clava da 500mila firme se si pensa che l’assemblea elettiva non dia alcuno spazio all’approvazione. In caso contrario, sarebbe immensamente più agevole chiedere a una pattuglia di parlamentari di presentare una proposta. Dunque, è ragionevole pensare che la maggioranza parlamentare faccia di tutto per evitare il referendum. Ancor più se poi c’è in prospettiva un derby nel voto popolare tra la proposta originaria e il testo conclusivamente approvato. La domanda è: esistono vie facili per evitarlo? La risposta è sì, almeno due.

La prima. Le Camere approvano la proposta, aggiungendo però al testo un contenuto disomogeneo. Il referendum sarebbe dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale. Essendo previsto, per il caso di approvazione con modifiche, un referendum unico per i due testi da votare in parallelo, dovrebbe cadere per entrambi. La legge non potrebbe allora vedere la luce.

La seconda. Le Camere approvano il testo proposto senza modifiche. Il referendum non ha luogo, e la legge entra in vigore. Successivamente, le Camere approvano una modifica, abrogativa o comunque stravolgente. Essendo chiuso il procedimento, il comitato promotore non è più legittimato a ricorrere alla Corte costituzionale come potere dello Stato. Né, essendo mancato il referendum, la legge successivamente approvata è illegittima per violazione dell’art. 71. È il “metodo voucher”, già utilizzato per azzerare il referendum Cgil.

Se ci si potesse fermare qui, potremmo dire a chi vuole immolarsi per la democrazia rappresentativa di stare sereno, perché non di una bomba si tratta, ma al più di un petardo referendario. Ma qualche altra preoccupazione c’è. Ad esempio, la mancanza di un quorum strutturale di partecipazione, come quello fissato dall’art. 75 per il referendum abrogativo alla maggioranza degli aventi diritto. Alcuni argomentano che anche per il referendum costituzionale ex art. 138 non è previsto un quorum. Ma quel referendum poggia comunque su un voto parlamentare non inferiore in seconda deliberazione alla metà più uno dei componenti delle assemblee. Qui invece, se le Camere non approvassero alcun testo, si andrebbe al referendum sul solo testo originario proposto. Se votassero in tre, due a favore e uno contro, sarebbe assolto il requisito della maggioranza dei voti validi. L’unico consenso mai concretamente espresso rimarrebbe quello delle 500mila firme a sostegno della proposta.

Un caso di scuola, certo, che però sottolinea una debolezza. Un’altra si trova nella inammissibilità – ora esplicitata nel testo base – per le leggi a procedura rinforzata, come la legge ex art. 116 Cost. sulla più ampia autonomia e le maggiori risorse su richiesta delle regioni. È il caso del Veneto, cui Salvini non vede l’ora di dare disco verde in consiglio dei ministri. Quindi, se anche tutti i non-veneti ritenessero attribuito a quella regione un indebito vantaggio a danno delle altre, non potrebbero raccogliere 500000 firme per ristabilire l’equilibrio violato. Quella legge sarebbe sottratta alla iniziativa rafforzata. Ma sarebbe anche – secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale – sottratta al referendum abrogativo. E sarebbe, ancora, sottratta alla modifica in sede legislativa se il Veneto non fosse d’accordo, per il dettato dello stesso art. 116.
In pratica, rimarremmo alla mercé del buon cuore dei veneti, e saremmo condannati a vita. Non male, per il governo del cambiamento.