Al numero 72 di Market Street a Thornton, nello Yorkshire occidentale, c’è Emily’s, un caffè che serve panini alla nduja, gorgonzola e mozzarella. Il venerdì sera c’è la Pizza Night e seduti ai tavolini «al fresco» si beve birra italiana. Ma se dalle brughiere dovesse arrivare pioggia o vento – dopotutto a dispetto del cibo siamo pur sempre nello Yorkshire – potete accomodarvi dentro. In questo caso vi troverete nel salotto di quella che all’inizio del 1800 era la casa del curato perpetuo del paese e tra un’oliva e un prosecco potrete rifocillarvi nel luogo esatto dove il 30 luglio 1818 nacque Emily Brontë.

CENTOQUARANTA anni dopo, il 30 luglio 1958, a Bexleyheath, poco fuori Londra, nasce Catherine Bush che solo per coincidenza porta lo stesso nome dell’eroina di Emily Brontë. Difficile stabilire se il 30 luglio c’entri qualcosa, ma Emily e Kate sono entrambe le autrici di Cime Tempestose, un romanzo e una canzone come nessuno li aveva mai scritti prima. Strabordante di passione e violenza e senza finalità edificanti, lo «strano» romanzo diventato un classico della letteratura mondiale ebbe un’accoglienza controversa: per Dante Gabriel Rossetti era «un libro demoniaco, un mostro incredibile (…) L’azione si svolge all’inferno, anche se i luoghi e le persone sembrano avere nomi inglesi».

Altrettanto «strana» e certamente fuori dai canoni pop la canzone, eterea ed erotica, talmente assurda e commovente da piacere a un punk come Johnny Rotten e diventare un immediato successo da classifica.
Nate lo stesso giorno e mese, Emily Brontë e Kate Bush resteranno per sempre legate. La canzone pop del 1978 sta al romanzo (1847) più di qualsiasi adattamento cinematografico: in quattro minuti e mezzo condensa l’amore viscerale e soprannaturale che avvince Cathy e Heathcliff nell’arco di quattrocento pagine.

LA LIAISON tra le due è stata rinnovata lo scorso anno, quando il festival letterario di Bradford ha commissionato alla musicista alcuni versi in onore della scrittrice. Parafrasando le parole del ritornello di Wuthering Heights, basato sulla scena più cruenta del romanzo in cui il fantasma di Cathy appare fuori dalla finestra di Cime Tempestose, nella poesia è Emily a chiedere di entrare: «Ah Emily. Come in, come in and stay», scrive Kate nel verso finale.

Se andate a passeggiare sui luoghi delle Brontë, «out on the wiley, windy moors», nelle brughiere insidiose e ventose, quei versi li potete leggere su una pietra collocata nel West Riding fra Thornton e la canonica dove vissero a Haworth.

COME EMILY, che viveva nel mondo immaginario di Gondal, Kate ha sempre avuto una fantasia fervida. La componente irlandese da parte di madre l’ha spinta verso il mistico e l’esoterico, dalle leggende celtiche a Wilhelm Reich e Georges Gurdjieff. Le ha giovato crescere in una grande fattoria nel Kent, anziché come Emily in una casa affacciata sul cimitero di Haworth, il villaggio con il più alto tasso di mortalità infantile della Gran Bretagna.

A East Wickham Farm, la residenza di famiglia, i Bush vivevano come bohémien, eccentrici ma con una solidità borghese alle spalle. Sarà per questo che la loro fattoria non è cambiata negli ultimi duecento anni e oggi non ospita un caffè che serve salame e friarelli, ma un laboratorio di lavorazione del ferro, una vera fucina di Vulcano gestita da Owen, il nipote di Kate.

«Ero troppo timida per essere una teppista, ma dentro di me lo ero parecchio», ha detto di sé Kate Bush, e la sensazione è che le stesse parole si potrebbero rivolgere a Emily Brontë, di natura misteriosa e solitaria ma capace di creare personaggi e situazioni di una violenza e ferocia inaudite. L’hooligan interiore ha permesso alla cantante di tenere testa fin dagli esordi ai dirigenti della sua casa discografica. Quando loro volevano James and the Cold Gun come singolo di debutto, lei pretese che fosse Wuthering Heights. Quando il 45 giri era pronto per andare nei negozi, lei fece cambiare la copertina.

USCITO all’inizio del 1978, in poche settimane scalzò Take a Chance with Me degli ABBA dal primo posto e fece della sconosciuta diciannovenne la prima cantante donna a conquistare la vetta della classifica con una canzone scritta da lei stessa.

Da allora con appena dieci dischi – e nemmeno tutti perfetti – in oltre quarant’anni di carriera, Kate Bush è diventata un’icona trasversale e intergenerazionale. Tesoro nazionale per gli inglesi, artista di culto per chiunque si rispecchi nella sua alterità intransigente, da Anohni a Tricky che con impeccabile modestia ha detto: «Di alcuni grandi cantanti riconosci le influenze, ma Kate Bush non ha madre né padre. Per me è stata più importante dei Beatles. Se non fosse stato per lei sarei rimasto un musicista qualsiasi come gli altri».

Come nel romanzo di Emily Brontë, una continua alternanza di paradiso e inferno quasi sempre rovesciati, nelle canzoni di Kate Bush c’è di tutto: religione, omosessualità, catastrofi nucleari, parità di genere, incesto, assassinio, sesso ed erotismo. Lionheart (1978) contiene una canzone dedicata alla vagina: «Nella stanza calda cadrai dentro di lei come un cuscino, le sue cosce morbide come marshmallow. Saluta il muschio soffice delle sue cavità…» (In the Warm Room); Never for Ever si chiude con una canzone cantata dentro un utero, The Sensual World (1989) si apre con il monologo di Molly Bloom dall’Ulisse di Joyce.

È UN’ARTISTA, a volte guarda indietro ma solo per andare avanti, si potrebbe dire parafrasando Bob Dylan. A parte Director’s Cut, in cui tornava sulle canzoni di The Red Shoes e The Sensual World, Kate Bush non ha mai raschiato il fondo del barile del suo catalogo.

Solo alla fine del 2018 sono usciti i remaster dei suoi dischi e una raccolta di rarità. Quest’anno Faber & Faber ha pubblicato How To Be Invisible, un’antologia di testi curata da lei stessa, che della riservatezza ha fatto una prassi di invisibilità. Del resto è sempre stata l’antitesi della songwriter confessionale, più David Bowie (Lindsay Kemp compreso) che Joni Mitchell.

«Dalle sue canzoni non si impara niente su di lei», scrive David Mitchell nell’introduzione al libro. «Le piacciono le maschere e i costumi – liricamente e letteralmente – i racconti lunghi, le fabulazioni e i punti di vista narrativi atipici. Eppure queste canzoni straordinarie e intense, che nessun altro avrebbe potuto scrivere, sono anche mappe del cuore, della psiche, dell’immaginazione. In altre parole, arte».