Lo scorso agosto, nella capitale dell’Uruguay si è svolta una riunione importante per il dibattito sull’aborto. A quasi vent’anni dall’approvazione da parte delle Nazioni unite del Programma di azione del Cairo (1994), le delegazioni ufficiali di 38 paesi del Latinoamerica e dei Caraibi hanno approvato il Consenso di Montevideo su popolazione e sviluppo, ponendo le basi per le politiche pubbliche da realizzare a partire dal 2015. Il documento del Consenso, firmato da tutti i paesi, anche da quelli nei quali l’aborto è totalmente illegale, esprime preoccupazione «per gli elevati tassi di mortalità materna, in gran parte dovuti alle difficoltà di accesso a servizi adeguati di salute sessuale e riproduttiva, e alla realizzazione di aborti insicuri».
Secondo dati dell’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms), in America latina si praticano 3.700.000 aborti insicuri, responsabili del 17% delle morti materne. Oltre il 50% delle interruzioni di gravidanza interessano donne dai 20 ai 29 anni e quasi il 70% minori di 30 anni. «Esperienze nella regione – recita ancora il Consenso – indicano come la penalizzazione dell’aborto provochi un aumento della mortalità e morbilità materna e non riduca il numero di aborti». Il rischio di morte è maggiore per le adolescenti, per la maggior predisposizione alla preeclampsia, l’ipertensione gestazionale, e per il volume della zona pelvica, ancora inadatto ad accogliere adeguatamente il feto. In uno scenario simile, gli stati firmatari si sono trovati daccordo nel raccomandare a quei paesi in cui l’aborto è legale o depenalizzato in base a leggi nazionali la prestazione di servizi adeguati perché le donne possano interrompere la gravidanza in sicurezza. Agli altri stati che invece vietano alle donne la possibilità di scegliere, il Consenso ha raccomandato di «modificare leggi, normative, strategie e politiche pubbliche in materia di interruzione di gravidanza, così da salvaguardare la vita e la salute delle donne e delle adolescenti, migliorando la loro qualità della vita e diminuendo il numero di aborti».
Un indirizzo ancora sulla carta anche in quegli stati che hanno scommesso sul «socialismo del XXI secolo» e che mettono al centro della propria costituzione la difesa ad ampio spettro dei diritti. Solo a Cuba, a Porto Rico e nel Distretto federale di Città del Messico (ma nel resto del paese le donne in carcere per aborto sono una settantina), l’aborto è legale. In Uruguay, con la presidenza dell’ex guerrigliero Pepe Mujica è in vigore una legge che depenalizza l’interruzione di gravidanza nel corso delle prime dodici settimane. L’oncologo Tabaré Vazquez, candidato per la coalizione progressista a succedere a Mujica, considera però l’aborto «un male sociale» e nel 2008 ha bloccato «per motivi etici» la legge del parlamento che lo aveva depenalizzato.
In Ecuador, il presidente Rafael Correa ha addirittura minacciato di dimettersi se il parlamento avesse accettato di discutere le proposte provenienti dalle femministe della sua stessa alleanza di governo. In Bolivia, il suo omologo Evo Morales ha definito l’aborto «un omicidio». E in Nicaragua, in nome di una rinnovata alleanza tra sandinismo e gerarchie ecclesiastiche, è stata cancellata una norma che consentiva alle donne di abortire. In Venezuela, vige il permissivismo nei fatti, Maduro non è contro l’aborto, ed è in corso un’intensa campagna di prevenzione contro l’alto numero di gravidanze in età precoce, ma una legge come le femministe vorrebbero non è in calendario. Strette tra un marianesimo difficile da estirpare e una malintesa cosmogonia indigena (la madre terra), le donne continuano a lottare. Chiedono la sovranità sui propri corpi, non la tutela e la mediazione dei medici tra loro e le istituzioni. Nel luglio scorso, in Cile, una grande manifestazione ha chiesto e ottenuto da Michelle Bachelet l’assunzione piena del tema. E in Honduras, le femministe hanno rivolto la stessa richiesta alla candidata di sinistra, Xiomara Castro. E promettono di presentere il conto ai governi progressisti.