Mentre ricorda il loro incontro, anche se sono passati alcuni decenni (le immagini sono del 2003, una intervista con Hélène Fleckinger, Roussopoulos è morta nel 2009) Carole Roussopoulos ancora sorride. Delphine Seyrig lei non l’aveva riconosciuta quando era venuta a iscriversi a un corso di video che teneva per piccoli gruppi di donne: «Non ero cinefila e credo che sia stato meglio perché così non sono stata bloccata nel nostro incontro. Le altre donne erano tutte incantate da Delphine». Siamo nel 1974, inizia così un’amicizia e una complicità artistica che attraversano l’immaginario per capovolgere la rappresentazione della donna. E il video è un’arma preziosa, Roussopoulos lo aveva capito subito, insieme al marito Paul aveva comprato una della prime Sony in vendita a Parigi – «la seconda, la prima l’aveva presa Jean-Luc Godard» – iniziando a filmare. L’obiettivo era raccontare la realtà da vicino, senza le mediazioni (e il controllo) dell’industria o delle televisioni obbedienti alle indicazioni della politica governativa – è quello che in Italia fa Alberto Grifi quando filma il movimento e le sue contraddizioni. Ma sono soprattutto le donne che Carole Roussopoulos vuole mettere al centro in una prima persona che il femminismo sta liberando, che è racconto di sé, della propria vita, di un quotidiano, della sessualità, del piacere, delle violenze in antitesi all’ «eterno femminino» tratteggiato dagli uomini e corrispondente quasi sempre ai loro fantasmi.

Delphine et Carole, insoumuses è la storia di questa amicizia che è insieme lavoro e militanza attraverso magnifici materiali di repertorio, frammenti di film, interviste, archivi. Ma soprattutto il film di Callisto Mc Nulty (al Forum) che di Roussopoulos è la nipote, uno dei più belli visti alla Berlinale fino a oggi – racconta in profondità la presa di parola delle donne: delle due artiste e di chi parla davanti alla loro videocamera. La lotta femminista comincia da qui, da questa parola e da questa immagine di cui le donne si appropriano per rompere i tabù, il silenzio del loro ruolo. Dire della prima volta che hanno avuto un orgasmo – «Mio marito era sorpreso, non sapeva che anche le donne lo provassero»- – Y’a pas qu’a baiser di Roussopoulos (1973) – o rivelare cosa significa nell’industria cinematografica essere donna con gli obblighi per le attrici di aderire fisicamente all’immagine che piace. Dunque rifarsi il naso, le mascelle, le tette, mentre i tuoi interlocutori, produttori, registi ecc sono per lo più maschi – Sois belle et tais toi! di Delphine Seyrig (1976) una serie di interviste a attrici hollywoodiane tra cui Jane Fonda. L’idea è rendere le lotte femministe immaginario, capovolgendo quegli stereotipi funzionali e assai radicati a cui anche le donne si conformano. Nell’anno della donna (1975) le due artiste insieme a Ioana Wieder e Nadja Ringard, il gruppo delle Insoumuses realizzano Maso et Miso vont en bateau demolizione ironica dei luoghi comuni sulla donna a cominciare dalle frasi dell’allora ministro per gli affari femminili Françoise Giroud, che è «Maso» perché compiace la visione degli uomini e «Miso» perché vuole essere come loro.

LE DONNE che parlano fanno paura, dice Delphine Seyrig. È attrice icona, espressione di un femminile oltre il gender, tra i Baci rubati di Truffaut, Pelle d’asino di Demy fino al vampiro lesbico (Les levres rouges di Harry Kumel). La sua presa di parola da personaggio pubblico è una scelta che ha un prezzo alto, qualche produttore (Toscan du Plantier) la rifiuta, certi attori maschi (Yves Montand) non vogliono lavorare con lei. Respinge la definizione di intellettuale, preferisce pensarsi come un’attrice e prima ancora come qualcuno che cerca di esprimere la sua visione del mondo.

SARA’ la protagonista di Jeanne Dielman di Chantal Akermann, India Song di Marguerite Duras, e Aloise di Liliane de Kermadec, tre film di donne, tutti del 1975, con figure femminili antitetiche agli stereotipi come la prostituta di Akermann riceve i clienti a casa e pela patate in cucina. Il cinema delle donne è marginale quindi politico dice Duras – a cominciare dalla differenza del budget. Vale ancora oggi e le «quote» non sono una risposta, nel politicamente corretto del bilancino tra quante registe donne (anche se i film sono non riusciti) e quanti uomini messo in pratica dal protocollo di genere della Berlinale, si rischia di perdere di vista ciò che governa un sistema, disparità e difficoltà (e anche autocensure) proprio come l’eccesso giustizialista ha messo in ombra le questioni – che poi sono le stesse – da cui nasceva il #MeToo. Che è ancora una volta la presa di parola delle donne, così preoccupante e spaventosa che rende attualissime le battaglie e le avventurose invenzioni di Delphine e Carole, di fronte a governi come il nostro che non tollerano sentire voci di donne in dissenso, pronti a votare decreti come quello Pillon che azzera la conquista dei diritti – aborto, divorzio – e a picchiare come abbiamo visto nei giorni scorsi le donne che protestano.

 

LE VITE e le battaglie di Seyrig e Roussopoulos sono quelle del movimento femminista, tracciano una storia che è, o dovrebbe essere comune alle donne, un patrimonio fondamentale che non deve essere dimenticato, perché ognuna di quelle battaglie ha cambiato qualcosa radicalmente, è stata dolorosa e terribile, e nelle storiografie ufficiali non esiste o quasi. Nel suo film McNulty rende il vissuto delle sue protagoniste materia viva, declina la memoria al presente, in una lezione di consapevolezza e insieme di allegria, libertà, piacere di vivere e di giocare. Pericolosissime.