Il teatro dei Pupi della compagnia di Turi Grasso di Acireale da vent’anni è anche un «gioco da ragazze». Premura e intuito di nonno puparo classe 1933 che ha avuto a cuore non solo la continuità familiare di un’arte a cui ha cominciato a dedicarsi alla fine della guerra, ma il coinvolgimento di figlie e nipoti femmine in un progetto di vita più che di lavoro.

ALESSIA GRASSO, che di anni ne ha 33 e ha cominciato a manovrare paladini cristiani e saraceni ancora bambina, racconta che Orlando, Rinaldo, Argante, Ferraù sono membri della famiglia a tutti gli effetti, presenti non solo in teatro ma anche in casa come fiabe della buonanotte e monologhi sciorinati da nonno, padre e zio in ogni occasione. Quello più caro? La morte di Orlando che con l’ultimo suo grido d’animale, o canto del cigno, soffia nell’olifante, il corno medioevale.
Se Venera, moglie di Mastro Turi, è da sempre costumista dell’Opera de Pupi, oggi Alessia e sua cugina Amanda, coetanea, sono tra le quinte e sul palco come attrici, manovratrici e traduttrici per un pubblico spesso internazionale: questo perché ad Acireale il Maestro Turi ha in parte modificato i pupi, che nella tradizione arrivano a pesare oltre 20 kg, prevedendone esemplari tra i 10 e i 15 kg, ridimensionandoli anche in altezza e costruendo nuove strutture, per consentire anche alle ragazze di approcciare la manovra fino ad allora esclusivo appannaggio maschile. Aveva pensato il Maestro a questa innovazione, per fare sì che le nipoti che sarebbero potute arrivare – e puntualmente sono arrivate – potessero essere parte attiva del teatro di Capo Mulini, piccolo scrigno che sembra il regno di Mangiafuoco, con la differenza che qui di marionette, non ce ne sono.

INFATTI oltre che per la parità di genere raggiunta con l’introduzione di pupi manovrabili anche da donne (non è banale, neanche per un uomo, armeggiare sul palco di manovra con un cristiano o un saraceno grande come un bambino robusto di sette anni, per di più ricoperto di corazza ed equipaggiato di spada e scudo) il Teatro dei Grasso si contraddistingue per essere rimasto attaccato alla tradizione di pupi e all’epica cavalleresca, senza estensioni ad altre figure o trame.
Qui si mettono in scena solo le storie di Ariosto, Boiardo, Tasso, Chanson de Roland, ciclo Carolingio insomma. Un universo molto fisico e contundente, dove le gambe dei pupi, a differenza di quanto accade per le marionette, sono prive di articolazioni perché Orlando e compagnia entrano in scena letteralmente a gamba tesa, e non si inginocchiano mai.
«Quando invece devi raccontare una storia di intrighi più complessi, quando hai Shakespeare (che si dice peraltro essere stato messinese ndr) da rappresentare, serve una mimica completa e una mobilità totale» spiega Giuseppe Grasso.

NEI PUPI (sia quelli tradizionali sia quelli di stazza più contenuta inventati dai Grasso) sono invece mobili le braccia che devono cingere ma soprattutto menare colpi e fare roteare le armi che peraltro non sono mai gingilli di latta; si tratta piuttosto di manufatti artigianali di sostanza e pregio, lavorati con la tecnica a sbalzo dal puparo (o dalla pupara) stesso. Gente che in sé, ama ripetere Turi, assomma molti mestieri: pittore, scultore, fabbro-ferraio, attore, manovratore, sceneggiatore. Oltre a doti atletiche di stuntman si direbbe: infatti Giuseppe, Tano, Simone, Alessia e Amanda diventano davvero la controfigura di Orlando e Rinaldo di Tancredi e Carlo Magno quando in piedi sull’asse muovono i due ferri che governano l’uno testa e tronco, l’altro la mano armata dei pupi riuscendo comunque a imprimere una certa grazia a quello sbracciare furioso ma pure innamorato. Donne e amori, del resto, si cantano, oltre ai cavalieri, alle armi e alle audaci imprese, e ai pupari non manca amore né ironia, come Borges diceva di Ariosto. Uno, sempre a detta del poeta argentino, che andava per le strade di Ferrara e allo stesso girava per la luna.
«Anche la nostra vita è in aria, seguiamo Astolfo, recitiamo versi, ma poi è legata alla terra e alla materialità di un mestiere e dei problemi pratici», spiega il puparo L’emergenza sanitaria, ovviamente, frenando turismo, attività scolastica e possibilità di tourneè estere, ha inferto anche a questo settore di arte e spettacolo un colpo che neanche Ferraù a Rinaldo. Ecco: i colpi, quelli fuor di metafora, sono la musica dei pupari.
Il clangore metallico, il rumore dello zoccolo che il manovratore batte a ogni mossa del pupo a scandirne incedere e azione, sono il commento sonoro all’Opera dei Pupi Acesi e richiamano la fucina dei Ciclopi alloggiata nel vicino Etna. «Chi manovra non recita» racconta Alessia «non basta il fiato».

LE RAGAZZE prestano le voci ad Angelica e Clorinda, a Dama Rovenza a Bradamante rappresentanti esemplari di una folta schiera di eroine, donne guerriere, che ad Acireale ancora oggi si raccontano nella versione dei poemi epici cavallereschi e dei cantari della tradizione.
Il teatro dei Pupi prevede una divisione del palco a metà: convenzionalmente la sinistra è occupata dai saraceni e la destra ai cristiani, con rimandi a spiritualità e a superstizione popolare. «Questi poemi che di fatto narrano tentativi di convivenza religiosa, anche se nella cornice delle Crociate, hanno ancora molto da dire al pubblico del 2020» ci dice Giuseppe che, alla fine del monologo di Argante però fa uscire il guerriero saraceno re di Gerusalemme dalla parte dei buoni.