All’undicesimo giorno di occupazione pacifica del ministero dell’Interno argentino a Buenos Aires, il gruppo di donne indigene che ha dato vita a quella che loro stesse hanno chiamato la «ribellione dei fiori nativi» ha concluso l’iniziativa (ma non la lotta).

Malgrado il freddo pungente, la pioggia e i temporali e le gelide notti passate nel piccolo spazio della hall del ministero e malgrado i grandi mezzi di comunicazione le abbiano ignorate, il gruppo di donne è riuscito a dare un’insperata visibilità alla loro causa, diventando «la voce dei fiumi, delle montagne, dei boschi fortemente minacciati dalle imprese estrattiviste», come pure «delle sorelle indigene assassinate» nei loro territori.

Il loro incontro con il ministro Rogelio Frigerio, per il quale erano venute da diversi punti dell’Argentina affrontando un viaggio lungo anche venti ore, era stato deludente come c’era da aspettarsi: l’unica sua proposta concreta era stata quella di pagare loro il viaggio di ritorno.

Ma le donne non si erano scoraggiate, decidendo di prolungare la loro permanenza nel cuore della capitale, in mezzo ai palazzi del potere, alle banche e alle sedi delle imprese quotate in borsa, per esporre denunce e proposte ai funzionari di altri ministeri e istituzioni. Con il risultato di strappare alle autorità alcuni impegni, come quello di risolvere i problemi dell’accesso all’acqua nelle loro comunità o quello di riprendere le indagini sul caso di Marcelino Olaire, scomparso l’8 novembre del 2016 dall’ospedale di Formosa, e di Ismael Ramírez, ucciso il 3 settembre del 2018, a soli tredici anni, dalla polizia del Chaco.

E, sicuramente, non si sono sentite sole. Malgrado l’ostilità delle forze dell’ordine, alle donne indigene la solidarietà non è mai mancata: da parte di altre donne, di militanti, di artisti e persino dei lavoratori del ministero.