Cosa succede a consegnare un intervento di restauro importante, come quello che interessa le superfici lapidee del Colosseo, in mano a imprese generali di edilizia, invece che a ditte specializzate? Che diventa un caso politico scottante, dati i visibili risultati. Perché tolti i ponteggi alle prime dieci campate, la sorpresa è amara: il lavoro ultimato è disomogeneo e peggiora l’aspetto complessivo del monumento: la pulitura, troppo approfondita, scopre gli strati profondi della pietra, mentre in altri sono ancora presenti le croste nere. Vacilla dunque pure la tutela del monumento.

È questo il j’accuse lanciato da sessanta restauratori. Si sono riuniti e hanno firmato un documento che invita al dibattito pubblico, rivolgendo un appello al ministro Franceschini e al presidente del Consiglio di stato, sostanzialmente a chi firmò la sentenza che legittimò la scelta di consegnare l’appalto a ditte edili (Gherardi / Aspera). Il loro consiglio è: meglio riconsiderare quella decisione, prima che sia troppo tardi. È gravemente lesiva per una categoria professionale apprezzata in tutto il mondo e pericolosa anche per il patrimonio stesso.

Quando tre anni fa, il Segretario generale del Mibact, architetto Cecchi, la direttrice regionale del Lazio Federica Galloni e l’archeologa responsabile dell’Anfiteatro Flavio Rossella Rea decisero di affidare quel lavoro a un’impresa generale di edilizia, i restauratori dettero battaglia, ma il Tar respinse il ricorso. Eppure prima dell’«estromissione», una ditta specialistica di restauro aveva approntato un cantiere pilota, mettendo a punto le metodologie giuste di intervento per quella delicata pulitura.