Una incrollabile fedeltà lega Javier Marías al tema del desengaño, ricorrenza tra le più intriganti della tradizione barocca spagnola, e prima ancora alla convinzione che «vivere nell’inganno è facile ed è la nostra condizione naturale»: così scriveva in Domani nella battaglia pensa a me, ma in generale tutti i suoi romanzi sono alimentati da questo motore di tensione, che genera anche l’andamento congetturante della sua prosa ipotattica, aperta a ospitare dilazioni destinate a sondare i confini del possibile, la realizzabilità del desiderabile, e la illuminazione progressiva delle zone d’ombra in cui si nascondono gli snodi cruciali delle vite dei suoi protagonisti. Un’altra diversa fedeltà lega lo scrittore spagnolo a Shakespeare, del quale porta sempre sul bavero della giacca l’effigie smaltata, e dalle cui opere ha tratto le parole dei suoi titoli principali: Un cuore così bianco, che riprende una battuta di lady Macbeth, Domani nella battaglia pensa a me, incipit della maledizione che gli spettri insinuano nel sogno di Riccardo III, Nera schiena del tempo, tratto dalla Tempesta, fino alla sinistra constatazione che costituisce il titolo del suo ultimo romanzo, Così ha inizio il male (Einaudi, traduzione di Maria Nicola, pp. 451, euro  21,00) dalle parole conclusive del dialogo di Amleto con la regina madre, subito dopo l’uccisione di Polonio.

I fatti – datati all’inizio degli anni ’80, in piena euforia della transizione postfranchista – sono raccontati trent’anni dopo dalla voce di Juan de Vere, all’epoca ventitreenne assoldato in qualità di assistente da uno stravagante cineasta, Eduardo Muriel, il cui infelice matrimonio con la «amorosa e dolente» Beatriz Noguera costituisce il teatro principale del romanzo. Quando si avvierà al bilancio di quanto è avvenuto all’epoca in cui era ragazzo e viveva presso i Muriel (che gli avevano destinato una piccola stanza dalla quale osservava l’andamento della casa) il non più giovane de Vere noterà che «i vincoli dell’infelicità e dell’inganno» sono i più solidi, quelli che oppongono maggiori resistenze a venire sciolti. Non si capirebbe, altrimenti, cosa giustifichi il protrarsi di una convivenza così avvelenata dal rancore com’è quella di Eduardo Muriel e sua moglie Beatriz: lui, guercio da un occhio ma a suo modo affascinante, legato a strane abitudini come quella di rivolgersi al suo interlocutore stando lungo sdraiato sul pavimento; lei avvenente quarantenne di liberi costumi e tuttavia legatissima a Eduardo, che sembra non la possa soffrire.

Il loro patto diurno prevede la gestione di tre figli e un ménage fatto di occupazioni indipendenti, ma anche tante piccole cene in cui ricevono gli amici comuni – intellettuali illustri, un medico, un torero – nel corso delle quali, grazie alla distrazione, scappa ogni tanto a Eduardo qualche sorriso rivolto alla moglie, «pallidissimo spettro di un desiderio defunto». Ma di notte quel patto si scioglie, ognuno si ritira nella propria stanza, fino al momento in cui Beatriz va a bussare alla porta del marito, lo supplica di lasciarla entrare, insiste per vincere il suo diniego, e lui, irremovibile, per tutta risposta la copre di ingiurie.

Una sera, il giovane de Vere, alla cui presenza in casa nessuno bada, ascolta un dialogo tra i due coniugi finalmente di fronte in abiti notturni: Eduardo rivendica qualche torto passato, un inganno subìto, si dà dello stupido per avere amato così a lungo una donna che non soltanto lo ha raggirato ma si è anche incaricata di farglielo sapere, gettandolo nella più profonda costernazione. E tutto per sfogare un momento di rabbia, così che nessun perdono sarà mai possibile: «C’era da parte di lui un’avversione radicata e profonda, e al tempo stesso palpitante e viva» – ricorda de Vere a trent’anni di distanza. Al suo racconto è affidato il congegno sapiente del romanzo che si ramifica in decine di digressioni, godibili esercizi di proiezione nel futuro a immaginare quel che potrebbe accadere, o parentesi narrative che ospitano la storia di un personaggio minore, o focalizzazioni di un dettaglio cruciale nell’attimo in cui tutto sembra decidersi: a pochi millimetri dalla coscia della ragazza che sta per concupire, de Vere così riflette: «Sembra una sciocchezza, una mano è una mano, ma c’è una enorme differenza tra il dorso e il palmo, il palmo è quello che palpa e accarezza e parla e agisce, in genere deliberatamente, mentre il dorso finge e tace».

Molti personaggi, tra quelli convocati nella trama del romanzo, ricalcano i cliché del machismo, muovendosi un po’ come marionette sulla scena di un mondo che si direbbe tramontato ma non lo è: fra questi Francisco Rico, proprio lui, il grande studioso di Cervantes e di Petrarca, non ancora cattedratico all’epoca dei fatti, che Marias – forse desideroso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa – ritrae come un egocentrico tracotante e vanitoso in cui si concentrano poesia e lussuria, raptus di oralità letteraria e sguardi concupiscenti lanciati alle ragazze capitate sotto tiro, alle quali si rivolge inframezzando oscure esclamazioni onomatopeiche a dotte dissertazioni per loro incomprensibili. Ma nella cerchia degli amici dei Muriel c’è anche un terzo uomo, il dottor Van Vechten, sul quale Eduardo chiederà al giovane de Vere di indagare per scoprire cosa ci sia di vero nelle voci che gli sono arrivate: si dice, infatti, che il dottore si sarebbe comportato in modo indecente con una donna, forse con più d’una tra le madri delle famiglie antifranchiste i cui figli pare andasse a visitare gratuitamente, essendo i mariti interdetti da ogni possibile ufficio, e dunque ridotti in miseria.

Sempre sdraiato sul pavimento, il cineasta che è al tempo stesso marito crudele e aspirante uomo probo, raccomanda al suo assistente di mostrarsi «miserabile e sprezzante» onde indurre il dottore a esserlo a sua volta, una buona premessa per concedersi a confidenze più intime; ma di lì a non molto un risvolto della trama farà sì che Eduardo Muriel ritiri il suo incarico, anzi si ostini a non volere sapere quel che nel frattempo de Vere ha scoperto, non grazie alle sue abilità investigative e a tutte le energie spese nel trascinare il dottore in giro per locali notturni con le sue giovani amiche, ma per un colpo di fortuna che lo mette in contatto con un testimone indiretto.

Attardato in numerose dilazioni che ne allungano e ne allargano la trama, questo romanzo la cui densità semantica paradossalmente tollera una attenzione fluttuante, ora precipita in un climax crudele, dove ogni personaggio raggiunge il suo destino, e viene svelato ciò che il franchismo aveva reso lecito e tenuto nascosto; ma nell’occultare i misfatti del dottor Van Vechte anche l’orgoglio che sostiene i vinti aveva avuto la sua parte, mentre oggi – chiosa Marías per bocca del giovane de Vere – «non c’è più nulla di redditizio del proclamarsi vittime, mostrarsi soggiogati e calpestati, gridare singhiozzando le proprie sventure». Benché il suo assistente frema dall’impazienza di sciorinargli tutto ciò che ha scoperto, Eduardo Muriel si ostina nel non voler sapere quel che lui stesso ha incoraggiato a scoprire: un tacito vincolo di gratitudine ora rinsalda la sua amicizia con il dottor Van Vechte, e alludendo ai benefici che si ricavano dalla rinuncia a conoscere quel che la vita non ci ha messo davanti, finalmente zittisce il giovane de Vere: «Così ha inizio il male e il peggio resta indietro».