Certo, non si può dire che il nuovo segretario del Pd Zingaretti abbia potuto godere di una qualche «luna di miele»: le critiche si moltiplicano, una certa aria di delusione si diffonde. Diciamo subito che questi giudizi sono un po’ ingenerosi: sottovalutano gravemente quanto sia impossibile la missione di salvare e rilanciare il Pd, o almeno quanto essa risulti ardua e complicata.

Zingaretti sarà anche, di suo, troppo prudente, ma la macchina che è stato chiamato a guidare è davvero ingestibile. Si prenda il suo primo atto politico del post-elezioni: la nomina della nuova segreteria. Alcuni incarichi sono stati subito oggetto di un fuoco di sbarramento, solo perché sospettabili di un’eccessiva discontinuità con il recente passato, in particolare sulle politiche del lavoro o sulle riforme istituzionali. Apriti cielo! Nel gergo esoterico del dibattito interno del Pd, questo sospetto viene subito bollato come effetto di una «deriva identitaria»: il che vuol dire, semplicemente, – non sia mai! – che il Pd in tal modo tornerebbe ad essere un partito di «democratici di sinistra»; e, di converso, questa accusa implica un’altra idea: che il Pd, non possa avere altra identità se non quella, un po’ amorfa e amebica, di un partito vagamente di centrosinistra, un’etichetta sempre più vuota, che sarebbe bene abbandonare, (anche perché, dall’altra parte, non c’è più alcun centro-destra). Per «tenersi insieme», insomma, il Pd non può definire in modo più preciso una qualche sua identità politica o culturale: ma in questo modo si condanna alla paralisi, come dimostrano questi mesi. Una trappola mortale.

Appare sempre più evidente che un qualche rilancio del Pd è possibile solo se si produce una vera discontinuità e che questa sia realmente percepita come tale dall’opinione pubblica. Compito non facile. Le recenti elezioni mostrano un dato: il Pd recupera qualche punto percentuale solo perché, in presenza di un forte calo dei votanti, riesce a compattare il proprio elettorato e ad attrarre una quota significativa di ex-elettori di LeU. Ma non riesce minimamente a recuperare i voti che erano fuggiti negli anni scorsi: il brand Pd è logoro, bruciato. Un esperto di marketing forse direbbe di più: un marchio completamente inservibile e oramai screditato, dopo che una linea di prodotti si è rivelata fortemente avariata…
Tuttavia, siccome fondare e inventare nuovi partiti è tutt’altro che facile (come mostra lo sconfortante susseguirsi di fallimenti di quanti, a sinistra del Pd, avrebbero dovuto provare a farlo, un nuovo partito), si comprende come oggi molti puntino ancora, o sperino, che qualcosa possa succedere nel Pd, o intorno al Pd. Ebbene, a quali condizioni questo è ancora possibile?

Zingaretti ha annunciato per l’autunno una conferenza programmatica, e non c’è dubbio che il partito, su tantissime questioni, avrebbe un assoluto bisogno di chiarire quella che un tempo si chiamava la «linea» (basti ricordare, da ultimo, le divisioni in parlamento sulle politiche per l’immigrazione). Ma come e chi decide sulle tante correzioni di rotta che sarebbero necessarie? Si confida solo sul decisionismo del segretario (magari poi smentito dai comportamenti dei gruppi parlamentari)?

Bisognerebbe poi mettere in guardia dal rischio che l’annunciata conferenza, o anche i cosiddetti forum, si rivelino solo delle kermesse oratorie o che tutto si concluda con una melassa di retorica partecipazionista: si voterà su qualcosa in questa conferenza? E, soprattutto, come sarà legittimata e composta la platea dei votanti? Come misurare il consenso effettivo che hanno nel partito le varie posizioni? E chi è in grado oggi di dirlo? Quanti sono quelli che difendono ancora strenuamente il Jobs Act e quanti invece vorrebbero archiviarlo? E quanti sono ancora i nostalgici della riforma costituzionale renz-boschiana?

E, all’opposto, quale linea di politica istituzionale si propone oggi, ad esempio sulla legge elettorale o sul regionalismo differenziato? Basta porsi queste domande per capire come, nel modo attuale di essere del Pd, manchino totalmente meccanismi democratici che siano insieme di discussione e decisione. Ci sarebbe forse un modo per uscirne: il segretario, e i vari responsabili dei settori di lavoro, potrebbero proporre delle «tesi» (sì, proprio quelle, le vecchie tesi su cui un tempo si facevano dei veri congressi…) e su questo chiamino a votare gli iscritti, nominando dei veri delegati alla conferenza programmatica. Aprire questo processo, peraltro, sarebbe anche il solo modo per dare un qualche senso al ricorrente appello a «entrare nel Pd», anche perché, ora come ora, un tale ingresso non servirebbe letteralmente a nulla.

È possibile ipotizzare un percorso di questo tipo? Non lo sappiamo: ma è certo che solo in questo modo si potrà capire quanto il Pd possa ancora reggere come contenitore di disparati orientamenti, dandosi nuove regole democratiche di partecipazione, discussione e decisione, o se – mancando tutto ciò – questo partito non sia prima o poi destinato ad implodere definitivamente o, peggio, a consumarsi nell’irrilevanza e nell’afasia.