L’estremo atto di arroganza di Matteo Salvini, volto a capitalizzare elettoralmente il credito attribuitogli dai sondaggi, a escludere il Movimento 5 Stelle e a inglobare i residui del berlusconismo, si è rivelato un errore. C’è un problema di tempi tecnici, c’è la volontà di sopravvivere di un parlamento da poco eletto, c’è un’aritmetica parlamentare che sulla carta consente altre maggioranze.

SOLO CHE in questo difficile frangente se arduo è capire cosa accade tra i 5 Stelle, in cui c’è un’ala che con Salvini s’è trovata benissimo, complicatissimo è capire cosa capiti nelle file del Pd. Dove si misurano almeno tre posizioni: quella di chi era disposto fin dal 4 marzo 2018 a negoziare coi 5 Stelle; quella di Zingaretti, di suo prossimo a tale posizione, ma incapace di governare un partito il cui gruppo parlamentare è ostaggio dell’altro Matteo e che potrebbe liberarsene a seguito di nuove elezioni; quella dell’altro Matteo, che, avendo finora vietato ogni contatto coi 5 Stelle, si è testé riconvertito. Nuove elezioni metterebbero a rischio le sue truppe parlamentari, gli serve tempo per fondare un suo partito ed è sempre in cerca di una rivincita personale. Risibile è la minaccia di Carlo Calenda, fresco eletto al parlamento europeo col Pd, di fondare anche lui un suo partito se 5 Stelle e Pd s’incontrano. Motivando, non a torto, con l’inaffidabilità dell’altro Matteo.

LA PARTITA purtroppo si gioca sulla pelle degli italiani. Intendiamoci. Un accordo tra Pd e 5 Stelle, sarebbe stata la soluzione più ovvia già dal 16 marzo. Vuoi per minor distanza programmatica, vuoi per contiguità dei due elettorati. Parte rilevante degli elettori a 5 Stelle proveniva dal Pd e da sinistra. Respinti all’indomani delle elezioni, i 5 Stelle si sono accordati con Salvini per formare il governo più tristo nella storia repubblicana. È ancora da notare come la polemica del Pd, a guida Zingaretti, ma ipotecato da Renzi, si sia accanita più che contro Salvini contro i 5 Stelle. Che hanno replicato per le rime: il culmine è stato la squallida vicenda del “partito di Bibbiano”.

ADESSO, con svariate acrobazie – governo di scopo, di legislatura e quant’altro – si prospetta un’intesa. A scandalizzarsi dell’opportunismo in politica è di solito chi ci perde. Ma qualche problema si pone comunque. Dopo le parole che si sono dette, come potranno mai convivere 5Stelle e Pd? Come non aspettarsi una riedizione del dualismo Salvini/Di Maio? E come si spiegheranno con i loro elettori? Il Capo dello Stato, che ha finora e interpretato rigorosamente il ruolo di rappresentante di tutti gli italiani, ottenendo nei sondaggi amplissimo consenso, si troverà in imbarazzo. Con che animo potrà conferire l’incarico di formare il nuovo governo viste simili premesse? Dopo la pagliacciata xenofoba gialloverde, ciò di cui meno c’è bisogno è una riedizione verderosa. Il sempre volenteroso Prodi ha invitato a una seria riflessione i due partiti e se possibile l’inclusione nell’accordo delle residue milizie berlusconiane, in nome dell’Europa. Ebbene, chi sa immaginare come un simile assemblaggio possa partorire un programma di governo capace di non predisporre la rivincita di Salvini?

Tutti ripetono tre formule: confermare la vocazione europeista del paese, tenere i conti in ordine (bloccando l’aumento dell’Iva) e scongiurare il pericolo populista.

Senonché, le tre formule sono alquanto difficili da conciliare. Se il Pd avesse meditato sulla débacle del 14 marzo avrebbe dovuto forse riconoscere che proprio la sottomissione ai diktat di Bruxelles e dei maggiori governi europei sui conti in ordine che ha spianato la strada ai 5 Stelle. Anche se i governi Renzi e Gentiloni hanno fatto il resto. È mancata una politica del lavoro e degli investimenti adeguata, volta a rimettere alfine in moto il sistema produttivo (alleviando, di conseguenza, il debito pubblico), insieme a incisive misure di tutela dei ceti svantaggiati. L’abbandono del Mezzogiorno e delle periferie urbane è stato drammatico. Micidiale alfine l’accoppiamento con le oscillanti politiche condotte sull’immigrazione, che hanno dato gas al motore di Salvini.

VA DA SÉ che questi indirizzi andrebbero rovesciati. Ma com’è pensabile di farlo, non tanto alla luce degli incerti orientamenti dei 5 Stelle, quanto della divisione entro il Pd tra un’ala arciliberista, convergente con Forza Italia, e una (moderatamente) interventista, convergente con Leu, intorno a una politica d’investimenti e di contrasto alle disuguaglianze sociali e territoriali, che dovrebbe necessariamente forzare i vincoli europei?

E ANCORA: come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti? Sarebbe mai un governo giallorosa in grado d’imporre all’Europa, oltre alla revisione degli accordi di Dublino, una politica verso il sud del mondo più generosa, lungimirante e assai più costosa di quella attuale, magari scontrandosi con l’amico americano? E che dire infine delle politiche costituzionali da condividere? Renziani e 5 Stelle s’intendono nel cavalcare l’ondata antipolitica tramite la riduzione selvaggia del numero dei parlamentari. L’ala zingarettiana è in sintonia con LeU e Forza Italia nell’immaginare correzioni meno dirompenti. Mentre permane assoluto mistero circa il futuro della legge elettorale. Che invece è decisiva.