Giovanna d’Arco è certamente uno dei personaggi più dibattuti della storia europea, e non soltanto dalla storiografia, visto che la politica se n’era impossessata già al tempo del suo processo, e non ha mai smesso di farlo fino ai nostri giorni. Una ragazzina di condizione medio-bassa che si fa cavaliere, cambia la storia della Guerra dei Cent’Anni, dunque la storia d’Europa, muore sul rogo prima di compiere vent’anni.
Difficile non considerarla imprescindibile nella riflessione storiografica, ma al contempo difficile renderla un paradigma, tanto la sua vicenda sembra voler sfuggire a ogni collocazione semplificatrice. A ben guardare, però, questo è vero (magari in misura minore, o con minore evidenza) per tante vicende individuali.

È BANALE, ma va tenuto presente quando ci si accosta a campi come quello degli studi di genere, o di «storia delle donne», come a lungo si è detto (e talvolta si continua a preferire) in Italia. Per questo è facile imbattersi in studi che presentano piuttosto una galleria di profili di donne: non si tratta di non voler arrivare a una sintesi, ma del rendersi conto che tale sintesi sottrae alla complessità, più che renderla.
Recentemente sono apparsi due bei libri di questo tipo: Maria Teresa Brolis, Storie di donne nel Medioevo (il Mulino, pp.172, euro 18) e il volume di Maria Serena Mazzi, Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo (il Mulino, pp.182, euro 14).

GIOVANNA D’ARCO si incontra in entrambi i testi. Ma contro il pregiudizio che vorrebbe un medioevo solo o prevalentemente maschile, le donne protagoniste sono numerosissime. Figurano quelle di grado sociale e spessore intellettuale importanti: come Ildegarda di Bingen, Eloisa, Eleonora d’Aquitania e le altre «Donne celebri» (è il titolo della prima sezione del libro) di cui parla Maria Teresa Brolis. Ci sono poi anche le «Donne comuni» (è la seconda sezione) che a ben vedere tanto comuni non sono, ma occupavano nella scala sociale un gradino più basso, e magari finiscono registrate dalle fonti perché invischiate in vicende giudiziarie. Quelle per magia e stregoneria (se ne parla in entrambi i volumi) sono una categoria ben rappresentata.

Nel caso del libro di Maria Serena Mazzi, le «donne contro» diventano protagoniste. Oltre alle presunte streghe, ci sono le recluse, le mistiche, le eretiche. Ognuna di esse con una vicenda peculiare, ma nell’insieme a dimostrare che il desiderio di uscire da una condizione di subalternità, da destini segnati, era forte e diffuso. Un problema che non si poneva, o certo non con la stessa forza, in quei personaggi che come Ildegarda di Bingen o Eleonora d’Aquitania hanno dominato la scena europea del XII secolo; ma che invece si palesa in molte vicende per così dire «minori».
Una storia di genere che non si intrecci saldamente con la storia sociale (e dunque dei ceti e delle condizioni) non ha, infatti, alcun senso.

Soprattutto nei secoli centrali dell’età medievale, prima che il rapido cambiamento nel settore economico mischiasse le carte, la società era irreggimentata all’interno di categorie salde, almeno sotto il profilo ideologico. «In questa valle di lacrime, gli uni pregano, altri combattono, altri ancora lavorano; e le tre categorie stanno insieme e non sopportano d’essere disgiunte, di modo che sulla funzione dell’una restano le opere delle altre due, tutte e tre a loro volta assicurando aiuto a ciascuna». È la celebre frase del vescovo Adalberone di Laon, che voleva offrire il ritratto della società europea intorno al Mille.

Cluny, Dame à la Licorne
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È IL CONCETTO delle tre funzioni, che rappresentano sulla terra l’ordine voluto da Dio e, allo stesso tempo, sono gli elementi che garantiscono l’armonia nelle società. Oratores, bellatores, laboratores: ai primi spettava pregare affinché la stabilità e la sicurezza del mondo cristiano fossero mantenute; ai secondi combattere, perché esso potesse godere della sicurezza; ai terzi mantenere i due precedenti «ordini» con la propria opera. Il termine labor indicava fondamentalmente la fatica dei campi, quindi il lavoro agricolo. Le donne non costituivano né un ordine né un genere a sé, visto che il concetto era sconosciuto, ma si collocavano all’interno di ciascuna delle tre categorie.
Si trattava comunque di un’armonia del tutto immaginaria, o meglio, come detto, ideologica; soprattutto a partire dall’XI secolo, quando i vertici del clero e le aristocrazie cominciarono un conflitto che sarebbe durato a lungo, nel quale la Chiesa cercò di irreggimentare i costumi dell’ordine dei bellatores, ossia di quello che ormai si andava configurando come il ceto cavalleresco. Era un cambiamento radicale rispetto al passato, quando l’alto clero viveva in modo conforme rispetto alle aristocrazie di appartenenza.

LO SPIEGAVA MOLTO BENE Georges Duby già agli inizi degli anni Ottanta nel suo Il cavaliere, la donna, il prete, saggio oggi meritoriamente ripubblicato (il Saggiatore, pp. 258, euro 25). Duby parlava del matrimonio, partendo dal caso del re capetingio, dunque francese, Filippo I, scomunicato perché aveva ripudiato la moglie per rapire, e sposare, quella di un altro. Si trattava della prima scomunica comminata a un sovrano da un papa, Urbano II; e rientrava in un progetto culturale e politico di «cristianizzazione» dei costumi cavallereschi.
Non è casuale che lo stesso Urbano II invitasse i cavalieri a partire a combattere contro i musulmani, in Spagna e poi nel Vicino Oriente. Anche quello era il segno della volontà di piegare le aristocrazie della guerra alla riforma ecclesiastica.

Il culmine di questo progetto lo avrebbe raggiunto Bernardo di Chiaravalle con la sua Lode della nuova milizia, ossia dei Templari (alla cui storia è dedicato il bel saggio di Simonetta Cerrini, La passione dei Templari, Mondadori, pp. 503, euro 13), cavalieri inquadrati in un ordine religioso e da lui contrapposti alla cavalleria «profana», ossia laica e mondana. Che tuttavia avrebbe mantenuto a lungo la propria, almeno parziale indipendenza culturale, il proprio gusto per l’arte della guerra elogiata dal poeta occitano Bertran de Born: non perché giusta o al servizio di una qualche causa, come avrebbe voluto la Chiesa, ma perché bella in sé.

LO MOSTRA MOLTO bene uno splendido libro uscito da poco: Alvaro Barbieri, Angeli sterminatori, Esedra editrice, pp. 212, euro 20), che analizza il tema della violenza nei romanzi di Chrétien de Troyes con un metodo che si muove tra filologia, storia e antropologia. Il romanzo e la poesia restano, infatti, a lungo lo specchio, magari a volte deformante, dell’ideologia cavalleresca, con la sua primordiale ferocia, le cui radici vanno cercate lontano nel tempo, come dice Barbieri sulla scorta di una ricca tradizione storiografica.
E se il «meglio morto che vivo e sconfitto» di Bertran de Born può suonare lugubre a noi contemporanei, non bisogna dimenticare che una delle ragioni del fascino che questi cavalieri hanno esercitato, rispetto agli eserciti moderni, risiede nel fatto che all’epoca erano le élites, non i poveri laboratores, a combattere. E ad autorappresentarsi nella poesia e nella letteratura, della quale i romanzi di Chrétien de Troyes letti da Barbieri costituiscono un apice assoluto.