Il 12 ottobre difendiamo la Costituzione. Da chi, come, e perché?Guardiamoci attorno. Centinaia di bare dal mare di Lampedusa, e i soccorritori minacciati di sanzioni penali; femminicidi e violenze sulle donne; nessun riconoscimento dell’orientamento sessuale; cori razzisti negli stadi; famiglie vicine o sotto la soglia di povertà; nuovi poveri, affidati alla Caritas e persino alla ricerca disperata nei rifiuti; pensionati con poche centinaia di euro al mese; giovani senza lavoro, privati del diritto di formare una famiglia, di avere una casa e dei figli; disoccupati, sottoccupati, precari, inoccupabili, lavoratori in nero; ospedali, scuole, università inadeguati; statistiche che ci consegnano agli ultimi posti per capacità di leggere e far di conto; un paese spaccato tra Nord e Sud e segnato da crescenti egoismi territoriali. E potremmo continuare.

La domanda è: ma la Costituzione si occupa di tutto questo? Certamente sì. Parla di diritti inviolabili, di doveri di solidarietà, di dignità, di eguaglianza, di diritto al lavoro, di famiglia e di figli, di diritto alla salute, all’istruzione, a una retribuzione adeguata, all’assistenza, alla previdenza, della speranza di ognuno di avere una vita sicura e dignitosa. Ed è la parte più originale e nuova del patto costituzionale, voluta in particolare dalla sinistra come scommessa sul futuro. Senza i “nuovi diritti”, sconosciuti alle costituzioni liberali come lo Statuto albertino, la Costituzione del 1948 non avrebbe visto la luce.

Ma se quei diritti furono nel patto costituzionale decisivi, e lo sono tuttora ogni giorno nella vita di tutti, perché sono ridotti a un miraggio? E non esistono guardiani, che avrebbero dovuto e dovrebbero difenderli? Per i costituzionalisti, il primo “guardiano” è la Corte costituzionale. Ma in qualunque testo possono convivere più Costituzioni potenziali. Le scelte di chi è chiamato ad interpretare, applicare, attuare ci diranno quale Costituzione è vera in un momento dato. Per molti versi la Corte ha dato della Carta una lettura debole per la parte di cui parliamo. Ad esempio, quando ha ricostruito i nuovi diritti come condizionati alle disponibilità di bilancio, o garantiti all’immigrato solo per il nucleo essenziale. Una lettura pacata della giurisprudenza ci dice che la concreta realtà di quei diritti è stata rimessa alle scelte di maggioranza e all’indirizzo di governo. Non è questo il senso di una garanzia costituzionale. Ed è una lettura che rende in ultima analisi possibile spendere miliardi in armamenti e missioni militari o diminuire la tasse per chi più ha, piuttosto che pensare alle intollerabili condizioni di vita di tanti.
Anche il Capo dello Stato è considerato un “guardiano” della Costituzione. E in effetti più volte nelle sue esternazioni Napolitano ha chiesto interventi per le difficili condizioni di vita di tanti, in attuazione della Carta. Ma ha anche sollecitato “necessarie” riforme. Sostiene il governo nel procedere alla revisione della Costituzione. Ha ideato la formula dei “saggi”, che in due successive tornate hanno avanzato proposte di riforma.

Nella relazione finale ci parlano di bicameralismo, di forma di governo, di primo ministro e di scioglimento delle Camere, di rapporto tra Stato e regioni, e simili questioni. Di questo dovevano occuparsi. Non già di rafforzare l’armatura dei diritti, tutelare meglio i più deboli, consolidare una concreta speranza di futuro e di vita dignitosa. E quali critiche per riforme già fatte – Titolo V, art. 81 e pareggio di bilancio – per evitare che contribuiscano alla deriva nella quale ci troviamo? Nessuna.

Onida (ieri sul Mattino) ha ragione quando chiede di confrontarsi nel merito, con civiltà e lealtà. L’abbiamo sempre fatto, anche da queste pagine. E certamente il disastro dei concorsi universitari e le inchieste non toccano di per sé il lavoro dei saggi, pur testimoniando il degrado dell’università e del ceto accademico, di cui è non poca ragione il rapporto sbagliato tra politica e saperi. Nemmeno c’è un fronte – come sembra pensare Dogliani (mercoledì sull’Unità) – di costituzionalisti minoritari e oppositori di mestiere, incapaci di contrapporre idee piuttosto che vociare insulti. Dico a Onida e Dogliani che invece le critiche sono state fatte e argomentate, e non hanno mai ricevuto dal pensiero costituzionalistico prevalente risposte convincenti. Dico ancora che è una diversa lettura della Costituzione a far concludere che le riforme proposte sono inutili, forse dannose. È questo il punto, senza alcuna ossessione complottista o fobia di tradimenti e inganni, in specie quando si dice che la Costituzione non è materia di scambio con la sopravvivenza di una maggioranza o di un esecutivo. I governi passano, le Costituzioni restano. E dunque se un governo di intese larghe o piccole che siano vuole quelle riforme a ogni costo, si rafforza solo la convinzione che sia un pessimo governo.

Diciamo allora che alle debolezze della Carta decisivamente concorre il cedimento politico-culturale degli eredi di quelle forze politiche che nella Costituente posero la sfida del cambiamento. La Costituzione come rivoluzione promessa non era vuota retorica, ma progetto che radicava nei diritti nuovi lo sviluppo della società italiana. È questa la parte che ha davvero subito l’insulto del tempo, e va difesa concretamente.
Quis custodiet ipsos custodes? Un interrogativo senza risposta da quasi duemila anni. Riformare in queste condizioni la Costituzione significa costruire un castello di carte. Meglio concentrarsi sull’uscita dalla crisi e sulla ricostruzione di un contesto in cui diritti, eguaglianza, solidarietà non siano più parole vuote, a questo aggiungendo solo una buona legge elettorale.