I «Cahiers du cinéma» passano di mano. Un gruppo di venti investitori ha comprato quella che Serge Daney chiama semplicemente La Rivista. Nulla di nuovo sotto il sole, si dirà. Le riviste passano di mano, sono vendute, rinascono oppure muoiono. Ma i «Cahiers» fanno parte integrante del cinema francese e contribuiscono da settant’anni a rifletterne la particolarità. Ora, ad ogni crisi si dice: i «Cahiers» non sono più quelli d’un tempo. Oppure, che è lo stesso: bisognerebbe ritrovare i «Cahiers» d’una volta.

Chi pensa questo ha ragione ma non nel senso che crede. Se c’è una cosa che identifica i «Cahiers» sono proprio le loro crisi, i loro passaggi o i loro colpi di mano, il loro smettere d’essere sé stessi. Le varie mutazioni che la rivista ha subito non furono mai casuali, né furono determinate da una specie di spirito della rivista, con il quale ci si dovrebbe riconnettere. Esse coincidono con dei momenti chiave della travagliata storia del cinema. È per questo che la storia di questa rivista è così interessante; chi la fa, viene a contatto con una sorta d’incosciente storico del cinema. E questo è vero anche oggi, nel momento in cui Macron, con meno clamore rispetto ad altre riforme, rivolta il fondamento del sistema di redistribuzione dei ricavi cinematografici, ovvero il cuore pulsante del cinema d’autore.

È IN QUESTO contesto che i venti «amici dei Cahiers», dopo un anno di trattative, hanno rilevato la rivista. Il progetto è a fondo perduto, e nessuno di loro si aspetta di guadagnare alcunché: si tratta, hanno detto, di «love money». Tra i venti, ci sono imprenditori cinefili, imprenditori tout court e anche quattro produttori, tra i quali il padrone di Why Not Productions Pascal Caucheteux. Questo ha suscitato sospetti sulla futura indipendenza della rivista. Eric Lenoir, che coordina e dirige il gruppo, ha tenuto a rassicurare. Raggiunto per telefono ci ha detto: «I produttori detengono una parte minoritaria del capitale. E non interverranno nella redazione». D’altra parte, una delle ambizioni della cordata è di aprire la rivista al cinema francese che in questi anni sarebbe stato maltrattato e dimenticato.

Anche questa orientazione ha fatto sorgere qualche dubbio. Che vuol dire apertura? Eric Lenoir ne declina il senso quasi letterale, ricordando gli anni in cui i «Cahiers» erano un luogo di cinema aperto a tutti, dove registi affermati o debuttanti, critici, produttori o semplici cinefili potevano ritrovarsi e discutere con i redattori (luogo che Caucheteux ha cercato di ricreare al secondo piano del cinéma du Panthéon). Vale la pena di chiedersi perché non sia più così (da molto tempo). Ed è inutile ancora una volta andare a cercare lo spirito perduto.

AL PASSAGE de la Boule Blanche, affittato per due lire negli anni 1980-2009, si poteva entrare senza suonare: era uno di quei «passage» aperti di cui parlava già Benjamin e che oramai sono stati tutti privatizzati. L’unico ostacolo era la timidezza: il giovane Jean Eustache, sbarcato a Parigi senza un diploma e con il complesso del proletario autodidatta, entrava in punta di piedi, con la scusa di passare a prendere la compagna, impiegata all’amministrazione… Tre ore prima della chiusura. Ma anche il caro affitti non basta a spiegare il ripiego. Era ancora alla Boule Blanche la redazione che ho conosciuto tra il 2001 e il 2009, e che ricordo senza i redattori, contenti di rimanere a casa, di inviare i testi via mail e di passare solo in occasione dei comitati in un ufficio diventato a loro estraneo, per non dire ostile.

L’INQUIETUDINE sull’indipendenza traduce, secondo Eric Lenoir, «un malessere della stampa di oggi». I giornali da più di vent’anni sono in perdita. Ma chi possiede «Le Monde» o «Libération» o «Les Inrockuptibles» non si cura di spendere milioni di euro per rimettere i conti in ordine, si aspetta infatti di guadagnare non dalle vendite, ma dal potere d’orientare l’opinione. L’elezione di Macron ha mostrato quanto quest’investimento sia oculato. E chi paga in definitiva sono le redazioni, che non sono più padrone di sé, e il lettore che, pur comprando il giornale, non ne influenza l’economia. Perché ai «Cahiers» dovrebbe essere diverso?

I «CAHIERS» nascono dal punto di vista critico con la pubblicazione dell’articolo di François Truffaut Une certaine tendance du cinéma français (n°31, gennaio 1954), dove il futuro regista viviseziona il cinema francese dell’epoca. La decisione di pubblicarlo fu tutt’altro che facile. Già allora l’industria cinematografica chiedeva ai «Cahiers» di essere «una rivista di prestigio dove il cinema francese fosse nel suo complesso sostenuto» (Antoine de Baecque, Histoire d’une revue, vol.I p.100). Sarebbe stato pubblicato Truffaut se, tra i finanziatori della rivista, ci fossero stati i produttori di Claude Autant-Lara? La domanda sull’indipendenza è quindi legittima. E l’attuale redazione, che probabilmente verrà azzerata, come del resto è accaduto tante volte nella storia della rivista, ha certo ragione di farla propria.

Ma è una domanda solo moralista se non viene posto un problema più radicale: è possibile fare una rivista assolutamente indipendente dal mondo del cinema? E se no, se la sola possibilità è l’interdipendenza, allora ci si deve chiedere in maniera trasparente con quale tipo di cinema i «Cahiers» vogliono legarsi – anche strutturalmente. Con il cinema d’autore? Con il cinema indipendente? Con il cinema commerciale? Questo secondo modo di porre il problema implica di pensare, se possibile «apertamente», la posizione politica della rivista. Ed è quello che più è mancato durante gli anni Schlagman, proprio perché quest’imprenditore svizzero, separando la struttura economica della rivista dal suo contenuto editoriale, aveva eliminato le condizioni in cui questo problema specifico si poteva porre.

E facendo questo aveva certo dato un’impressione d’indipendenza (come se Schlagman non fosse un padrone), in parte effettiva (la redazione ha scritto più o meno quello che voleva) ma pagata al prezzo di una separazione della rivista dal mondo del cinema (in cui la tensione tra economia e opera è invece fondamentale). Chi pensa che questa separatezza sia la vera indipendenza non ha letto Marx, oppure non l’ha ben capito. Il che ovviamente non è una colpa, ma è certo un difetto.

RESTA DA VEDERE chi prenderà le redini della redazione al posto di Stéphane Delorme e Jean-Philippe Tessé che la dirigono da dieci anni. Un intervento pubblicato nel blog della rivista «Mediapart» firmato Emily Barnett ha agitato le acque e suscitato un certo clamore. Redattrice di lunga data agli «Inrockuptibles», Barnett ha argomentato che la Rivista è stata sempre dominata dai maschi. E che in un momento in cui il cinema francese evolve, i «Cahiers» dovrebbero fare altrettanto.

L’intervento è scritto con un tono curioso, tra il serio e il faceto. Barnett si dice ammirata del fatto che un gruppo d’industriali possa interessarsi al cinema (come se questo non fosse un’industria!). E dall’altro dismette i dubbi sull’indipendenza con un semplice, ma altrettanto incredibile: «Vi credo». D’altro lato ha «paura», perché solo due tra di loro sono donne. E chiede ai nuovi capitani di aprire la rivista alla pluralità degli sguardi. Chi potrebbe darle torto? «Basta con una redazione di maschi bianchi» è uno slogan molto cool – in questo caso forse un po’ opportunista.

MA NÉ PIÙ né meno di quello dell’indipendenza tradita agitato dall’attuale, traballante, redazione. Entrambi potrebbero più onestamente difendere le proprie aspirazioni, che devono apparire loro illegittime se credono di doverle nascondere dietro le bandiere della libertà e della parità di genere. Resta il fatto che nella sua lettera di motivazione, Emily Barnett si pone molte domande e mai un problema. In ultima analisi, il suo è appello al buon cuore dei money lovers. Come se la dominazione di genere fosse una svista o un caso strano, da risolvere dicendo ai padroni: «Per piacere, siate più cool». Né il campo dei puri né quello del cool sembra chiedersi il perché delle cose, né l’uno né l’altro sembra volersi armare per cambiarle. Chiusi nei rispettivi moralismi, vietano a sé stessi la possibilità di pensare apertamente. Anche in questo, la microstoria dei «Cahiers» somiglia terribilmente all’air du temps.