La basilica di Santa Maria della Salute a Venezia è nata da un voto solenne pronunciato dal doge Nicolò Contarini nell’ottobre 1630, come un impegno della città verso la Vergine invocata per allontanare la peste. Il tempio doveva sorgere accanto ai magazzini della Dogana, un luogo simbolo della tradizione marittima della Serenissima: unde origo inde salus, nell’origine la salvezza, è il motto per la posa della prima pietra, riproposto anche al centro del pavimento intarsiato. L’associazione tra la Vergine e Venezia, quindi tra le origini della città e il suo avvenire, era palese. La Salute non era solamente un voto per la sconfitta del morbo, ma un tempio dedicato al futuro della Repubblica.
Il progetto scelto per la chiesa è quello di Baldassare Longhena; da subito si cercano anche un grande blocco di marmo per farvi scolpire una Vergine da porre sull’altare maggiore, e un grande scultore che lo lavori, magari Bernini. Quest’ultimo, per motivi diversi, si smarca. Solo dal 1670 si ricomincia a pensare fattivamente alla scultura e la commissione cade sul fiammingo Giusto Le Court (1627-’79). L’artista, emerso con forza nell’ambiente lagunare degli anni precedenti, è già da tempo vicino a Longhena. L’impresa della Salute è la sua consacrazione, un fulgore di marmo al cuore di un edificio che, dirà Goethe, è «fino ai particolari un campione di cattivo gusto, una chiesa degna che vi succedano dei miracoli», l’apice, cioè, del Barocco a Venezia.
L’altare di Le Court è oggetto di White Marble and the Black Death Il marmo bianco e la peste nera, un libro di Maichol Clemente edito da Marsilio, finanziato dal Venetian Heritage e corredato da una splendida apposita campagna fotografica di Marco Furio e Mauro Magliani (pp.208, euro 35,00).
Giusto, probabile allievo ad Amsterdam di Artus Quellinus il Vecchio – quindi con un bagaglio figurativo tra Du Quesnoy e Rubens –, è a Venezia almeno dal 1655. Il suo primato tra gli scultori in laguna si assesta negli anni sessanta; nel 1679, dopo i lavori alla Salute, nella sua bottega «ha molti lavorieri per le mani» ed è «ricco assai», tanto che «non sortirebbe di Venetia» per nessuna commissione. Del resto la città aveva in quei decenni confermato la sua vocazione di capitale cosmopolita, capace di attirare, scrive Nicolò Doglioni nel 1675, «gli artefici», che «vanno dove che corre il danaro e dove che le genti son morbide, e grasse».
Per la Salute Le Court realizza uno stuolo di statue: i dodici Apostoli e i quattro Dottori della Chiesa disposti nel presbiterio in due ordini sovrapposti, e il gruppo posto sull’altare maggiore: una cornice esagerata, parlante, per la venerata Icona della Mesopanditissa; una cornice estrema nella turbinosa dilatazione dei panneggi che sembrano ribollire quando il candido marmo di Carrara reagisce al contatto con la luce, quasi per reazione chimica, una speciale fotosintesi che espande i gesti delle sculture nello spazio, pure bianchissimo, della chiesa.
In sintesi: la personificazione di Venezia, sontuosamente vestita in un florilegio di marmo lavorato – si direbbe ricamato – si genuflette rivolgendosi alla Vergine perché interceda nel cacciare la peste. Bardata di pizzi, broccati, ermellino e perle, Venezia è una regina opulenta, come quelle di Veronese, simile a quella, nota Clemente, dipinta da Pietro Liberi per il vicino altare di Sant’Antonio, ma anche a quella dipinta da Pietro Negri per lo scalone della Scuola Grande di San Rocco, coetanea – forse con qualche mese in meno – di questa di Le Court. Come il fiammingo, anche Negri sintetizza in un’allegoria il voto del 1630: Venezia scende dal trono, si inginocchia, porge il corno dogale alla Vergine. E qui, sullo sfondo, al di là dell’intreccio vivido delle masse, tra cromie lussureggianti e chiaroscuri, appare la Salute. Illuminata dal sole, la chiesa rappresenta la concretizzazione del voto esaudito.
Insomma, la Regina celeste non può che acconsentire, e la Peste, una vecchia sghemba, macilenta, con il volto scavato e il seno cadente, scappa concitata inseguita da un piccolo angelo arrabbiato munito di torcia. Qui Giusto dà prova di una spettacolare capacità tecnica nella resa mimetica delle tramature delle diverse stoffe, ma è lo studio delle carni, del volto, delle rughe del collo, a rendere la Peste una scultura così straordinaria. Clemente richiama «l’inzegno tenebroso, e scuro» (Boschini) del pittore genovese Giovanni Battista Langetti arrivato in laguna nello stesso momento di Le Court. Nelle sue tele enfatiche i corpi si disfano, soffrono, si consumano nell’effimera consistenza della vita, in un naturalismo crudo, con «Tentoreto» ma anche Caravaggio e Ribera «in mezo al cuor».
Lo studio di Clemente ripercorre la genesi dei marmi di Le Court attraverso il montaggio di documenti, testimonianze, letture critiche e immagini. Le fotografie dei Magliani ripercorrono la pelle di queste statue. Dicono bene Monica De Vincenti e Simone Guerriero nella prefazione, che Giusto rappresenta l’unica alternativa «d’alta classe» alla lezione di Bernini. Quello che per i contemporanei è stato, non per caso, il «Bernini adriatico», o «il Prassitele della nostra età».