Da un lato le parole che sono capaci di tracciare un significato, una traiettoria di segnali; dall’altro quelle che invadono e ammorbidiscono, fino a soffocarlo, il respiro della realtà: «Le parole / come segni e come feltri». Così appaiono, scrutate, esposte, pesate, le parole di Essere con gli altri, una poesia del secondo, bellissimo libro di versi di Guido Mazzoni, La pura superficie, appena pubblicato da Donzelli (pp. 80, euro 13,00), sei anni dopo il primo, I mondi.
Due epigrafi tratte dai diari di Kafka, aprono questa raccolta: la seconda suona così, «da tutte le cose mi separa uno spazio cavo che non mi affretto a delimitare». E subito, il libro si riempie di segni chiari, radenti e spietati; ma appare, al tempo stesso, come un percorso felicemente ibrido, una composizione di ritmature differenti: verso, prosa, trasfusione di altri versi.

Passeggeri dell’esistenza
Più indizi portano poi a leggerlo come un vivo registratore di scosse, dalle quali io, tu, lei, noi, come personaggi e come lettori, siamo chiamati ogni volta a riaverci, a riprendere coscienza. Ci siamo dentro, come peripezie di pronomi, di persone fungibili, di osservatori e di vittime: passeggeri là dove ci conduce e ci fa sostare l’esistenza, persi in tutti quegli eventi che pure guardiamo, amministriamo, addomestichiamo e dissipiamo, con le dita che scivolano sugli schermi. Quegli eventi che finiscono per diventare vittime anch’essi, per scivolare via dalla memoria, persi in una superficie che non ha appigli né spazi cavi.
Per quanto si espone, e per quanto rimane al tempo stesso coraggiosamente lucido, La pura superficie prende in sé i caratteri del libro che vede l’orizzonte del proprio tempo: prima di tutto nel suo non permettere alle parole di gonfiarsi, o di fabbricare dall’esperienza castelli di retorica. Qui, ognuno vive in un’equivalenza decisiva tra l’esposto e l’intimo; ognuno è destinato a perdersi, mentre prova a chiudere la cerniera della sua «vita impropria», come scrive Mazzoni: «cose casuali», «pezzi d’infanzia», tentativi di appartenere a ciò che si è. Ed è da qui, forse, che Mazzoni opera la sua grande ricucitura, l’ascolto di una voce, che è tra i caratteri più notevoli dell’ibridità del libro. La voce è quella di Stevens, Wallace Stevens, che diventa titolo e perno di tutte le sezioni della Pura superficie. Mazzoni lo traduce, è vero, ma lo trasfonde, anche; sembra lavorarne la materia con le mani. Riallaccia i contatti tra i testi di The Rock e di Opus posthumous, li richiama a funzioni. Pure, mere, plain: tutti aggettivi stevensiani che definiscono gli oggetti, le superfici, le cose. Ognuno sconfina nell’altro, con il suo carico di segni e di fratture.

«La grande sorgente della poesia non è altra poesia ma la prosa: la realtà. Tuttavia ci vuole un poeta per percepire la poesia nella realtà». Così aveva scritto Stevens, e forse per questa ragione Mazzoni sceglie ora di riportarlo qui, come una stazione-radio lontana, come una rete di coordinate per ridisegnare i tracciati. Come Fortini faceva con Brecht, come Zanzotto con Hölderlin.

Così, quell’aggettivo del titolo, pura, conserva in sé tutto il carico di significato che il vocabolario di Stevens le ha lasciato. Una qualità che non tende a nulla, è solo lì dove vuole esistere, anche nel momento in cui sta irrimediabilmente scivolando via. Pura, mera, piana superficie. Torna alla mente, ma è solo un attimo, il Sereni del Diario d’Algeria: le sue città viste appena dalle tradotte notturne, un nome, un lampo. Qui invece, per Mazzoni, è il paesaggio umano a incarnare una sorta di resistenza della visione: una sorta di condanna non a morire, ma a restare – non si sa come, né perché – vivi.
Solo un esempio, scorrendo rapidamente tra i testi. Nella quarta sezione, Cinque cerchie: le persone che significano moltissimo, quelle che lo fanno solo per un certo tempo, quelle che servono, quelle che passano e scompaiono, quelle che si formano solo nella mente. Poi, nella quinta sezione, Quattro superfici: l’essere esposti, la percezione, il linguaggio, l’immagine interna degli altri. Sono le due poesie nelle quali si disegna un impressionante pentagramma ammutolito, scavato da pochi, precisissimi segni. Forse in questo pentagramma sussiste il piano di percezione di tutto il libro: le poesie, le prose, gli inserti da Stevens. L’insieme delle sue superfici di lavoro. E qui, in un grande equilibrio generale, sta anche la ragione della prima epigrafe kafkiana, un appunto del 2 agosto 1914, che recita: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia / Nel pomeriggio scuola di nuoto».

Eccoli, tutti in un istante, i piani di realtà con i quali l’io entra in lotta. Pervasività della violenza, nudità della materia verbale, assenza di relazione tra i livelli. Così, ad esempio, Uscire, prima poesia della prima sezione: «da qualche anno le cose mi vengono addosso senza protezioni. / In sogno vedo denti rotti, punti di sutura, / topi tagliati in due, tra l’orecchio e la mascella, che discutono fra loro. / Spesso, quando parlate, io non vi ascolto, / mi interessano di più le pause tra le parole, / ci leggo un disagio che oltrepassa la psicologia, qualcosa di primario». Così torna fuori – se non è solo una impressione, una empatia impropria – un inserto generazionale, fatto di personaggi che sono testimoni, vittime e campi di forza. Una «mamma come tante», che spinge avanti il passeggino nell’attrito della ghiaia del parco, mentre la vita le è andata via; una generale «precarietà entrata nella mente», nei sogni di ricerca; un quarantenne che torna disfatto in metropolitana da una riunione di lavoro, disancorato e replicato nelle facce dei suoi compagni di viaggio; un altro che si affanna verso un fazzoletto di carta, al termine di un video barely legal. Gente presa in mezzo, rinchiusa nella colonia digitale, anestetizzata, aneddotizzata; con i volti nascosti dietro le bottiglie dismesse, in una cupa, oscena riunione tra vecchi compagni di scuola.

Gli «eventi illeggibili»
Infine, è la prosa (la realtà, nel senso di Stevens) a sviluppare con grande efficacia i piani kafkiani evocati nelle due epigrafi. Doppio genere di prosa, come pare, distinguibile per spazio, tempo e funzione. Da un lato le trascrizioni di sogni (quasi rincorsi, registrati a malapena, come nella segretezza di un nastro), e i loro segni sull’angoscia del risveglio. D’altro canto, le dense prese dirette degli eventi del 2001 (l’11 settembre, nei Destini generali, e le cariche di Genova, in una concitazione che ricorda i cortei di Cesarano, di Fortini, di Raboni; gli anni della presa di parola, gli anni lasciati andare dall’odierno, compassato schifo). Lì è iniziata la storia che non è iniziata mai: quelli di Genova «proveranno odio, per qualche settimana si sentiranno parte di un movimento immenso, un mese dopo si dissolveranno, dieci anni dopo saranno soli e incomprensibili». Saranno, cioè, le «pure vittime», gli «eventi illeggibili», diventati ora spazi cavi di angoscia che nessuna parola potrà permettersi di riempire, invadere, ammorbidire.