La celeberrima Ville Savoye, abitazione unifamiliare costruita da Le Corbusier tra il 1928 e il 1931 nei dintorni di Parigi, è divenuta in un brevissimo lasso temporale emblema per antonomasia dell’architettura Modern Style. Un vero e proprio monumento alla contemporaneità, celebrato e pubblicato ovunque, meta di pellegrinaggi compiuti da giovani progettisti di ogni generazione in cerca di un sacro Graal a cui votare la propria carriera: da Colin Rowe, a James Stirling o Rafel Moneo. Un paradigma, insomma, il cui valore esemplificativo è stato abilmente accresciuto dai continui sforzi compiuti, in prima persona, dallo stesso Le Corbusier e dai suoi sostenitori nell’impresa (da Jean Badovici, all’epoca editore della rivista «L’Architecture Vivante», a Sigfried Giedion) in sincronia già con il procedere del cantiere. Fin dagli albori della sua microstoria, tuttavia, la casa ha evidenziato una lunga sequela di difficoltà e intoppi, che l’hanno portata più volte sull’orlo della completa rovina. A cui, però, non si è mai arresa, anche grazie a pionieristiche operazioni di restauro, che hanno segnato l’avvio del dibattito disciplinare sui modi e metodi necessari a salvaguardare le meraviglie della modernità edilizia.
Intorno alla costruzione della sua fortuna critica e agli interventi di recupero che ne hanno impedito la perdita, si concentrano le ricerche condotte dallo storico dell’architettura Carlo Olmo e da Susanna Caccia Gherardini, docente di restauro all’Università di Firenze, in un libro edito da Donzelli (pp. 223, euro 42.00). Intitolato La villa Savoye Icona, rovina, restauro (1948-1968), il saggio sembra dunque muoversi, a prima vista, su due binari paralleli, che in realtà convergono per ricostruire (attraverso l’attenta analisi di disegni, carteggi, diari, fotografie e testi, provenienti da numerosi archivi e in gran parte inediti) il ventennio ricco di avvenimenti che ci ha ri-consegnato la villa, ormai cristallizzata nel suo essere icona.
Fragilità costruttive
Il racconto prende avvio dal fatidico 29 ottobre 1929, quando Le Corbusier presenta al mondo, in una conferenza tenuta in Brasile, l’astrazione iconografica, legittimata dai risultati di oltre dieci anni di riflessioni, di un edificio che, a quella stessa data, è ancora fermo al livello di progetto (il quinto, per la precisione). E che sta vivendo una delle fasi più critiche nel complesso rapporto tra il maestro svizzero e la committenza: i coniugi Savoye, da Le Corbusier considerati una sorta di accidente inevitabile, ospiti che poi arriverà a definire semplici occupanti, che lo stanno rallentando con una serie, pur legittima, di richieste e, spesso, lamentele. A cui egli opporrà sempre il muro di un fama mondiale già consolidata: l’edificio è un capolavoro e poco importa, per esempio, se all’indomani della sua inaugurazione si allaga perché l’acqua piovana filtra dal tetto piano, sul cui grado d’impermeabilizzazione si era già ampiamente discusso in fase di cantiere. In fondo, la copertura della villa Savoye è la quintessenza della realizzazione di uno dei famosi cinque punti teorizzati da Le Corbusier: è il più perfetto luogo di svago su un toit-terrasse, così come formalmente perfetti risultano agli occhi del progettista i serramenti che chiudono le panoramiche fenêtres en longueur, tuttavia non in grado di garantire il corretto isolamento termico.
Le molte fragilità costruttive sono non solo il motivo che scatena l’ira dei committenti, ma anche la ragione dell’avvio di un processo perenne di manutenzione straordinaria a cui la casa è sottoposta già nel 1932, quando la famiglia si arrende e la dichiara inabitabile in un’infuocata lettera indirizzata all’architetto. Viene da prima utilizzata solo come casa di campagna e poi rapidamente abbandonata al più completo degrado, senza però che ne sia minimamente intaccata l’aura quasi mitologica. Anzi, dal 1948 la sua fama raggiunge ambienti lontani da quelli della militante fazione riunitasi per legittimarne il ruolo, grazie alla sua citazione in opere di storia generale o persino in un’antologia letteraria dedicata ala mondo occidentale, edita nel 1950 da John Kirby. Episodi che sembrano giustificare la posizione assunta da Le Corbusier, che da dietro le quinte muove i fili del nascente movimento per la salvaguardia dell’opera: è lui che autorizza le visite in situ, lui che gestisce la diffusione delle immagini da concedere alla stampa (peraltro modificate, fin dagli anni venti, grazie all’uso dell’aerografo per eliminare dettagli ritenuti fuorvianti), lui che tesse le relazioni con gli organi francesi preposti a promuovere le operazioni di remise en état; lui, infine, che mette in piedi una vera e propria campagna mediatica a scala mondiale, anche attraverso l’esposizione del progetto ad alcune delle mostre che hanno segnato la storia dell’architettura del Novecento.
Il frutto di tanta fatica è un intervento di restauration fidèle: fedele a un modello riscritto, dallo stesso Le Corbusier, a partire dal 1960, quando viene commissionata una perizia per valutare lo stato del manufatto. Ufficialmente l’intervento è condotto, tra il 1963 e il 1968, dall’architetto Jean Dubuisson, che tuttavia è costretto a fare i conti prima con l’egemone maestro e i suoi diretti collaboratori (tra gli altri, Francois Gardien, direttore dei lavori per conto dello studio di Le Corbusier) e, poi, con la sua ingombrante memoria. Ma anche con l’imposta reiterazione, in virtù dell’autorevolezza riconosciuta al maestro di La Chaux-de-Fonds, degli errori tecnologici; al punto che, poco dopo il primo intervento, appare evidente come l’edificio necessiti di una nuova, radicale operazione di restauro ( che verrà compiuta negli anni Settanta), e, di nuovo, nel 1998.
Di questi tre restauri, gli autori del libro ci raccontano con dovizia di particolari il primo, preceduto dalla ricostruzione dell’acceso dibattito sui danni subiti per incuria dalla villa – completamente disabitata dal 1940 –, la cui distribuzione interna era stata profondamente alterata, in occasione della sua occupazione da parte di militari, tedeschi e poi americani, durante la seconda guerra mondiale. Ci s’interroga all’epoca sull’eventualità di una completa demolizione, giustificata dal pessimo stato del fabbricato principale e di numerosi annessi, contro cui si scaglia l’intellighenzia – architettonica e culturale – internazionale che, infine, ottiene che lo Stato francese ne acquisisca la proprietà.
Il cantiere di restauro
Per dare inizio ai lavori che trasformeranno la casa in una sorta di memoriale di Le Corbusier, più che nel museo di se stessa ipotizzato, già agli inizi degli anni cinquanta, dal suo autore improvvisamente scomparso nell’agosto del 1965, poco prima dell’apertura del cantiere. Al centro dell’intervento viene posta la volontà di salvaguardare quanto più possibile l’integrità materica del manufatto: «tutto ciò che è recuperabile, salvabile, viene restaurato e rimesso in posa – scrive Caccia Gherardini – quanto ormai distrutto o scomparso viene possibilmente riproposto nelle sue fattezze d’origine, insomma all’identique . Un restauro quasi “archeologico” anche nelle finiture interne e degli elementi accessori, che avrebbe riguardato gli stessi componenti di arredo stabili (armadi, cucina…). Un’attenzione all’originalità che coinvolge non solo l’immagine, ma la sostanza dell’opera: e in piena costruzione della mitologia sull’architecture blanche per eccellenza non è davvero poco. Autenticità e originalità si sovrappongono sino a materializzare l’autorialità».